Imprevedibile Ascanio Celestini. Quando ha presentato alle Giornate degli autori, a Venezia, il suo nuovo film, Viva la sposa, Stefano Disegni ha fumettato su di lui dicendo di amarlo quando fa teatro. Come dire che il cinema rimane estraneo al nostro. Eppure Ascanio intriga quando nei panni del protagonista Nicola è sempre attaccato alla bottiglia, fingendo di smettere. E intorno a lui ruota un’umanità dolente, non domata. C’è Salvatore e sua mamma Anna, prostituta da sempre e ribelle da poco, c’è Sabatino che simula incidenti per truffare le assicurazioni, roba minima, poi però succede anche il fattaccio, c’è anche Concellino che vuole ambiziosamente seguire la carriera di truffatore, c’è Sofia che la mamma di Nicola avrebbe voluto come nuora, ma lei è sempre in procinto di partire, solo con la fantasia.

E poi c’è l’Abruzzese carrozziere e parcheggiatore notturno, ci sono profughi ucraini, tassisti profittatori e c’è anche Sasà che finisce male in Questura (scatenando l’ipocrita e preventivo risentimento di alcuni sindacati di polizia, come se non ci fosse un tristissimo rosario di nomi e cognomi a testimoniare che questi fatti avvengono, eccome). E intorno a tutti c’è lei, la giunonica straniera bionda in abito da sposa che gira festosa per Roma. Si muore, si ride, si beve, si soffre con queste figurine che sembrano uscite dalla realtà per essere centrifugate da Celestini che le piazza in un mondo dove il racconto si trasfigura in grottesco.

Chiave molto complicata da reggere per un intero film che infatti a tratti rapisce lo sguardo e il cuore poi rischia di lasciare sbalorditi e perplessi. Eppure in filigrana quello che emerge da questo quadretto del Quadraro è davvero l’Italia nelle sue innumerevoli miserie, nei molteplici talenti e nelle sue poche speranze. L’affabulazione di Celestini è irresistibile, ma la sua visione è talmente unica e soggettiva che gli altri interpreti, compresa Alba Rohrwacher (Sofia, come la Loren) sembrano figure precarie, artisti perplessi sotto la tenda del suo circo personale.

Vero grande complice sembra invece essere Luca Bigazzi alla fotografia, insieme riescono a trasformare gli squallidi bar di periferia in palcoscenico, l’universo basso dei «locali col pranzo a prezzo fisso al capolinea della metro, tra i muratori che mangiano il pollo e le patate con il quartino di vino al baretto sulla Tuscolana». Lì dove non arriva la grande informazione, se non quando succede il fattaccio da manipolare. Lì Ascanio ha scritto il film per raccontare le vite dei suoi burattini con empatia.