Domenica 1 ottobre si è chiuso a Chengdu il settimo congresso internazionale di Slow Food, caratterizzato dall’approvazione di sei mozioni, la prima sui cambiamenti climatici, presentata dal board internazionale e la sesta sul problema delle micro e nano plastiche presentata da Cinzia Scaffidi, nel mezzo, quattro mozioni funzionali alla vita associativa.

Tutto questo a distanza di pochi mesi dalla dichiarazione del Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump, o meglio dell’esibizione narcisistica e scenica con tanto di claque di adulatori, ed è d’obbligo fermarsi su alcune considerazioni.

A oggi la ricerca e le organizzazioni internazionali dimostrano che la chiave per mitigare i cambiamenti climatici sta nel preservare la biodiversità e gli habitat, conservare gli stock delle risorse biologiche, ridurre le emissioni di gas di serra atmosferici e altre politiche di risparmio energetico. E se non lo facciamo per tempo e con decisione la situazione potrebbe solo che peggiorare. Ce lo dicono gli oceani, il regolatore primario del clima e accumulatore del calore terrestre, e il nostro Mediterraneo.

Non solo. A marzo di quest’anno i dati relativi alla concentrazione di anidride carbonica in atmosfera hanno riportato un valore di 406 ppm (parti per milione). Questa concentrazione non aveva mai superato 290 ppm nell’ultimo milione di anni, fino a circa 200 anni fa, nei periodi interglaciali. Per trovare 400 ppm in atmosfera dobbiamo risalire a circa 60 milioni di anni fa. Tecnicamente respiriamo l’aria dei dinosauri, e non ne conosciamo le conseguenze sulla salute, ma le vediamo sul campo.

A livello globale gli oceani si stanno riscaldando per l’aumento della temperatura e gli impatti di natura fisica sono l’aumento della temperatura superficiale e profonda delle acque, lo scioglimento dei ghiacci delle calotte polari, lo scioglimento dei ghiacci terrestri e quindi l’innalzamento del livello del mare e una diminuzione di salinità. Tutto ciò si riflette sulle variazioni della corrente termoalina oceanica, il cui motore si basa sulle differenze di salinità e temperatura.

Con effetti che si possono solo presupporre sui dati storici a nostra disposizione.

Negli ultimi anni, la ricerca è andata oltre, studiando gli effetti dell’aumento della concentrazione di anidride carbonica che si somma all’aumento di temperatura.

Più aumenta l’anidride carbonica nell’atmosfera più essa si discioglie nei mari. Qui un aumento di anidride carbonica porta alla formazione di acido carbonico, creando un problema di acidificazione.

Dall’inizio dell’industrializzazione a oggi il pH medio delle acque superficiali è passato da 8,21 a 8,10 e secondo le stime previste su diversi modelli ci si aspetta un’ulteriore diminuzione di 0,5 unità entro la fine del ventunesimo secolo. E come la concentrazione dell’anidride carbonica, questa diminuzione così forte sembra non essersi mai verificata in un così breve lasso di tempo negli ultimi 20 milioni di anni.

Le ricadute dell’aumento della temperatura e dell’acidificazione purtroppo le abbiamo già viste: la Grande Barriera Corallina australiana è stata data per morta pochi mesi fa. I coralli non sono riusciti a sopravvivere, poiché le alghe unicellulari simbionti, le zooxantelle, che gli permettono di nutrirsi attraverso la fotosintesi, non hanno più trovato le condizioni fisico-chimiche ideali per perpetuare la simbiosi.

Ora sotto la lente d’ingrandimento c’è la barriera del Mar dei Caraibi. Il problema non coglie solo questi organismi ma l’intero ecosistema che ne fa parte e da cui dipende, grazie alla complessa rete trofica che è in grado di sostenere. È verosimile che gli organismi che ne fanno parte subiranno una migrazione verso acque più fredde, instaurando complesse sovrapposizioni di flora e fauna marina e di competizioni ecologiche nuove nelle acque temperate con ricadute economiche anche per l’uomo, nel settore ittico.

Un’altra conseguenza dell’acidificazione è nel più che probabile discioglimento dei carbonati, presente in moltissimi organismi, dalle alghe unicellulari ai più complessi come molluschi e crostacei. Il discioglimento potrebbe non permetterne più la formazione andando così a indurre scompensi lungo tutta la catena trofica marina.

Nel Mediterraneo il sistema è addirittura più delicato, viste le caratteristiche geomorfologiche del nostro bacino chiuso: gli apporti fluviali si sono ridotti sia per la diminuzione delle precipitazioni sia perché sono aumentati i prelievi di acqua dolce e con le temperature alte il Mediterraneo sta evaporando, con un conseguente aumento della salinità.

Tutto questo, unito al cambiamento dei regimi dei venti che sono diminuiti, non permette più un regolare moto verticale. Il motore termoalino potrebbe cambiare e con esso le correnti.

Salinità, temperatura, acidificazione, evaporazione e anossia, la perdita di ossigeno disciolto in acqua per l’aumento della temperatura, hanno un diretto impatto, quasi ovvio, sulla base vitale dei mari, quella biologica ed ecosistemica. Cambiano i parametri dei nutrienti inorganici per strutturare la vita dalle prime fasi e delle condizioni ottimali per generare il ciclo vitale del mare che parte dal fitoplancton fino ai grandi mammiferi, influenzando la formazione di differenti ecosistemi, dalla superficie al fondo del mare. È ovvio che questo vada a influire pure la pesca, e quindi l’uomo e sulle sue attività.

I cambiamenti climatici potrebbero far variare la potenzialità di pesca nei prossimi cinquant’anni. Le fasce intertropicali saranno tra le più colpite per via della migrazione, ma questo influirà anche sul Mediterraneo.

Le osservazioni di biologi e zoologi registrano un aumento della tropicalizzazione e della meridionalizzazione delle specie: il Mediterraneo sta diventando sempre di più l’areale di specie provenienti da mari tropicali, attraverso il Canale di Suez, le note «specie-aliene».

Non trovando più condizioni ottimali nelle aree indo-pacifiche, le trovano nelle acque mediterranee. Per l’effetto domino che in natura i vuoti si riempiono e i sistemi ecologici si influenzano l’uno con l’altro, le specie mediterranee si spostano a nord, uscendo da Gibilterra. Oppure cambiano profondità per il proprio sviluppo, in acque più fredde o si spostano dal sud Mediterraneo verso il nord del bacino.

Questa concatenazione di eventi potrebbe avere degli impatti che vanno osservati e studiati.

Il quadro è di per sé già articolato e critico da solo. Sappiamo però che sugli oceani e sui mari la pressione antropica non finisce qui: l’allarme recente della plastica nei mari, macro e microplastica, che sta vertiginosamente mettendo a repentaglio tutto il sistema marino, il crescente aumento dei contaminanti chimici che si accumulano negli organismi e lungo la catena alimentare con riscontri problematici nel funzionamento ormonale degli stessi, la pressione eccessiva della pesca che sta erodendo la capacità di rinnovo delle specie, la distruzione dei fondali dovuta alle attività di pesca aggressive, la sottrazione di spazi e la pressione sulle coste. Tutti elementi che vanno considerati e regolati per attuare politiche di mitigazione ai cambiamenti climatici.

È dalla conservazione e dal restauro degli ambienti naturali che si deve ripartire, attuando politiche di tutela e gestione. Tutto questo per non mettere a repentaglio la possibilità e la capacità di rinnovo delle risorse e degli ecosistemi, per non andare oltre al punto di non ritorno.

Sappiamo che Gaia, la nostra terra, ha grandi capacità di regolazione, se le basi su cui si regola, non risultino compromesse definitivamente.