Le opposizioni caricano e chiedono le dimissioni del ministro Alfano, il Pd fa quadrato. Non senza dolori di pancia, imbarazzi, parole a mezza bocca. La minoranza fa spallucce «è un caso politico, non giudiziario». A metterci la faccia, gli tocca per ragioni istituzionali, è il capogruppo dem della Camera Ettore Rosato che taglia corto: «Alfano sta facendo bene il suo lavoro e le cose che leggiamo non coinvolgono né il suo lavoro né la correttezza dei suoi comportamenti. La richiesta di dimissioni è pretestuosa». Per Matteo Colaninno «si sta dando vita a un’operazione di volgare strumentalizzazione». Ma il problema, come spiega Loredana De Petris (Sinistra italiana) è che «è l’ennesima volta che o per vicende legate al ruolo istituzionale o per vicinanze di partito o per rapporti di parentela, Angelino Alfano si rivela come una figura imbarazzante per il governo e per il paese».

È così. E i musi lunghi di queste ore dimostrano che i dem si accingono a ingoiare un nuovo rospo, provando a dimenticare la lunga serie di gaffe, guai e amicizie pericolose del ministro. Sulla quale la maggioranza ha dovuto stendere il più classico velo pietoso, naturalmente per non far saltare il governo. Alfano è il ministro che ha collezionato più mozioni di sfiducia di tutti i colleghi messi insieme. Tutte respinte in aula, ma tutte nate da vicende incredibili per il titolare di un dicastero così delicato. La prima fu il caso Shalabayeva e a (non) farne le spese fu il governo Letta. A fine maggio 2013 un commando di uomini della mobile e dell’Ufficio immigrazione prelevarono la moglie e la figlia del dissidente kazako Ablyazov e le espulsero, seguendo un mandato di cattura kazako (in seguito l’allora ministra Bonino riuscì a far tornare in Italia le due donne con lo status da rifugiate). Alfano sostenne in aula di non essere stato informato. I 5 stelle e la sinistra presentarono la mozione di sfiducia. Ma soprattutto a chiedere le dimissioni del ministro fu l’allora sindaco di Firenze Matteo Renzi, in compagnia di Cuperlo e Orfini.

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Quando poi un anno dopo Renzi divenne premier, il ministro Alfano mantenne il Viminale e il suo stato di untouchable. Imbarcandosi per una poco onorevole carriera di strappi, strappetti, gesti inopportuni oppure sconclusionati. Come nel giugno di quell’anno (siamo nel ’14) quando viene arrestato Massimo Bossetti, oggi condannato in primo grado per l’omicidio della povera Yara Gambirasio. Alfano non si tiene: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara». Per il ministro arresto e sentenza sono tutt’uno. Il giorno dopo il procuratore della città fa sapere che in quella circostanza il silenzio è d’oro «anche a tutela dell’indagato per il quale vale la presunzione di innocenza». Ma è andata. E non è l’unica. Quella degli annunci precipitosi di arresti di presunti criminali è un tic non da poco, soprattutto per chi guida gli interni. Così il 21 maggio 2015 Alfano esulta per l’arresto di Abdel Majid Touil, ventiduenne marocchino accusato di aver preso parte alla strage del museo del Bardo a Tunisi. Nell’occasione anche Matteo Renzi si lascia trascinare nell’entusiasmo, twittando al successo delle forze dell’ordine lombarde. Messa così, la Lega si scatena sul presunto fenomeno dei terroristi che arrivano sui barconi. Dopo cinque mesi di detenzione il ragazzo viene liberato: errore di identificazione, lo «stragista» stragista non era.

A ottobre per Alfano arriva un’altra sfiducia per l’incredibile manganellamento in piazza degli operai dell’Ast di Terni. Il ministro assicura in aula che i manifestanti avevano intenzione di occupare i binari, per questo andavano bastonati, ma la trasmissione Gazebo manda in onda immagini che lo smentiscono clamorosamente. Poi c’è la lunga sequenza di indagini che coinvolgono esponenti dell’Ndc, parenti amici e soci. E così Alfano si guadagna un altro voto di sfiducia sul caso Lupi (che lo stesso Alfano costringe alle dimissioni nel marzo 2015), e polemiche per le indagini che riguardano il senatore Antonio Azzollini per il crac dell’istituto Divina Provvidenza di Bisceglie, quelle sul Cara di Mineo che investono in pieno il sottosegretario Giuseppe Castiglione, luogotenente di Alfano in Sicilia indagato per turbativa d’asta. E infine i 5 stelle ci provano anche nel febbraio 2016 quando si scopre che è lo stesso Alfano ad essere indagato dalla procura di Roma per abuso d’ufficio, in compagnia anche di esponenti del Pd al governo, per aver trasferito «irregolarmente» alla vigilia del Natale precedente, il prefetto di Enna Fernando Guida dalla città siciliana ad Isernia.