La «Germania in cui vivere bene e volentieri» illustrata sul poster elettorale di Angela Merkel campeggia in tutte le città da una settimana.

Lo slogan presentato a Dortmund lunedì scorso segnala ufficialmente l’inizio dello sprint finale della cancelliera, lanciata verso il traguardo del quarto mandato.

Secondo i sondaggi – ma non solo – la sua rielezione il 24 settembre appare davvero questione di tempo e poco più di una pura formalità.

LA RILEVAZIONE EMNID di sabato scorso conferma, ancora una volta, come dentro le urne non ci sarà alcuna gara: lo sfidante Martin Schulz, leader dell’Spd, è staccato di ben 14 punti e non sembra in grado di bucare lo schermo neppure nei confronti tv «addomesticati».

In più, gli scandali (dal Diesel-gate all’affaire Nsa), le emergenze (dai migranti, al terrorismo, fino alla salute delle banche tedesche) e le crisi internazionali (da Trump a Erdogan) non hanno scalfito l’immagine di Merkel né i connotati del suo personaggio.

Eppure – nonostante la propaganda – i problemi non sono stati risolti, ma solo “addormentati” il tempo necessario a vincere le elezioni. Come prevede l’unico vero slogan che Merkel applica, in maniera seriale, fin dal 2005: «Un colpo al cerchio e uno alla botte».

Tattica tutt’altro che inedita e in perfetta linea con il manuale di strategia democristiana, ma anche compito svolto senza la minima sbavatura come dimostra l’ultimo “capolavoro” politico della cancelliera: 50 milioni di euro stanziati a Unchr e Oim per fini umanitari. La cifra combacia quasi come un calco all’export di armi made in Germany verso la Turchia (49 milioni nel 2016; 5,6 nei primi quattro mesi del 2017) e prova come de facto il governo Merkel appoggi il “sultano” di Ankara ben oltre i finanziamenti per i centri profughi e la mano libera su gran parte delle moschee sunnite nella Bundesrepublik. Eppure non se n’è accorto quasi nessuno.

ANALOGAMENTE, la cancelliera ha costruito il “patto” sul Diesel-gate dopo lo scandalo del software truccato non solo dal gruppo Volkswagen. Da un lato Merkel ha rimproverato pubblicamente i manager dell’industria automobilistica, dall’altro ha avvallato la soluzione dei costruttori che se la “caveranno” giusto con la promessa che in futuro saranno prodotte «5 milioni di auto meno inquinanti».

E proprio nel Land della Bassa Sassonia (azionista rilevante di Vw) si consuma un’altra operazione sintomatica della “co-gestione” della cancelliera che fa gridare all’«imbroglio» tanto gli alleati quanto gli oppositori. È l’improvviso cambio di casacca della deputata Elke Twesten: a inizio agosto ha abbandonato i Grünen per passare ai banchi della Cdu, senza rimettere il mandato. Una bella grana per il governo rosso-verde del Land e soprattutto per il governatore Spd Stephan Weil “scippato” del seggio che garantiva la maggioranza al Parlamento di Hannover. Il risultato sono le elezioni anticipate fissate a metà ottobre, esattamente sull’onda del trionfo di Merkel nel voto federale.

EGUALMENTE ESEMPLARE appare la realpolitik sul blocco-navale nel Mediterraneo. La cancelliera sostiene (non solo a parole) gli «sforzi della guardia costiera libica e del governo italiano per fermare i trafficanti» e fa sapere di apprezzare il “codice Minniti” sulle ong. Tuttavia l’ordine impartito alla marina militare tedesca schierata nell’operazione Sophia fa ancora perno sul «salvataggio di vite dall’annegamento in osservazione (solo) del diritto internazionale», almeno sulla carta.

Del resto, la “forza” di Merkel corrisponde alla debolezza degli avversari esterni e soprattutto interni all’Union democristiana, dove il “dopo-Angela” è sempre all’ordine del giorno. A riguardo vale la pena di scorrere l’indice di gradimento degli esponenti del governo a sei settimane dal voto: spicca l’ultimo posto del ministro dei trasporti Alexander Dobrindt della Csu, inviso dal 60% dei tedeschi.

Un grattacapo in meno per Mutti, un problema in più per il rivale Horst Seehofer, leader dei cristiano-sociali nonché “nemico giurato”. A fine giugno durante la stesura delle 88 pagine del «programma di governo 2017-2021» dell’Union (votato all’unanimità) il governatore della Baviera ha dovuto ingoiare l’ennesimo nein della cancelliera sul limite di 200 mila migranti all’anno.

UN EPILOGO quasi scontato, eppure ottenuto – anche qui – grazie al metodico esercizio della distribuzione dei pesi: la rinuncia al tetto sui profughi è stata incassata dalla Csu in cambio dell’assicurazione di Merkel sull’aumento dei rimpatri, l’allargamento a dismisura dei “Paesi sicuri” e – soprattutto – dello spostamento del baricentro dell’emergenza dalla Germania all’Italia, puntualmente verificatosi.