Se possiamo pensare di abolire le prigioni, è anche grazie alle persone trans e non binarie che ci hanno mostrato come pensare al di fuori della scatola di ciò che è considerato «la normalità», diceva Angela Davis nel 2020. Abolire il carcere è, anzitutto, un potentissimo atto immaginativo, oltre la norma: questo il tema del celebre saggio Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale (Minimum fax, pp. 278, euro 18, traduzione di Giuliana Lupi). Qual è la necessità di tornare a pubblicare un libro che, in poco meno di 20 anni di esistenza, è già un classico del pensiero intersezionale e abolizionista? Riportare nell’Italia contemporanea lo straordinario lavoro teorico e politico che ha coperto oltre un trentennio della vita di Angela Davis è una operazione in buona parte impossibile.

LE CARCERI STATUNITENSI, nella precisa genealogia tracciata nella prima parte del volume, esistono in quanto diretta estensione del sistema schiavile: il sistema carcerario, scrive Davis, nasce in continuità con l’epoca dei linciaggi e crea una nuova forma di lavoro non pagato, adatta al quadro istituzionale post-schiavile e capitalista – ciò che Davis definisce il complesso carcerario – industriale. La seconda parte del volume raccoglie una serie di lunghe interviste realizzate a pochi anni dall’11 settembre e immediatamente dopo la diffusione delle immagini delle torture di Abu Ghraib, che avevano prodotto uno shock negli Usa di Bush.

La differenza tra Abu Ghraib e una qualsiasi prigione non è qualitativa, ma risiede esclusivamente nei diversi regimi di visibilità in cui le vicende si trovano ad accadere: una visibilità pressoché spettacolarizzata che non deve stupire, se consideriamo che la tortura viene esercitata su corpi considerati non umani affatto o non umani abbastanza; su quelle che Judith Butler, riferendosi ai prigionieri politici di Guantánamo avrebbe definito vite che non valgono la pena di essere vissute. La postfazione all’edizione italiana – di Valeria Verdolini di «Antigone» – evoca le recenti immagini del carcere di Santa Maria Capua Vetere, la ritualità organizzata delle torture della cosiddetta mattanza della Settimana Santa del 2020 che ha scioccato un intero Paese in cui il sovraffollamento carcerario è una realtà consolidata, pallidamente apparsa agli onori della cronaca solo nel drammatico contesto della pandemia e in cui le violenze strutturali del sistema poliziesco – e di polizia carceraria in particolare – vengono ancora trattate, nella migliore delle ipotesi, con il paradigma delle mele marce.

Ma anche un Paese in cui esistono forme di profilazione razziale dei presunti criminali – perché è importante evitare l’errore di cancellare l’elemento centrale del lavoro di Davis, quello della razza – sicuramente diverse da quelle statunitensi, ma che portano un numero enorme di persone migranti ad essere detenute per reati minori, criminalizzate a causa di una legge che ha reso la clandestinità reato, rinchiuse in centri detentivi speciali il cui regime di invisibilità e opacità è addirittura molto superiore a quello delle carceri ordinarie. Eppure, anche in queste occasioni estreme, si riesce a pensare al carcere solo in termini di riforma, cioè di miglioramento di un sistema nato strutturalmente per disumanizzare chi ne fa parte.

LA LOTTA ABOLIZIONISTA, ci insegna Davis, è una lotta intersezionale che metta prima di tutto al centro la restituzione dell’umanità che non si riesce a riconoscere ai soggetti detenuti, la possibilità radicale che le loro vite, come quelle di chiunque altro, valgano la pena di essere vissute. Se guardiamo ai movimenti femministi, Aboliamo le prigioni vede la luce in un’epoca diversa dalla nostra, prima della «quarta onda», del #metoo e di Ni una menos. Una contraddizione sembra più che mai attuale: come è possibile conciliare l’abolizionismo con un femminismo incentrato sulla questione della violenza? Il movimento femminista si è dovuto confrontare con un sistema giudiziario e legislativo patriarcale, che tende a disconoscere la violenza di genere mediante condanne lievi – quando non inesistenti – agli aggressori. Istanze punitive sono emerse davanti a sentenze di assoluzione o pene estremamente lievi – come nel famoso caso de La Manada in Spagna: di fronte al costante disconoscimento della violenza di genere e al diffuso senso di sospetto nei confronti delle vittime – fortissimo laddove la cultura dello stupro è dominante – il tribunale diventa l’unico spazio creatore di verità inoppugnabili, la pena si trasforma nell’unica modalità possibile per essere credute o protette.

Senza operare nessun giudizio sulle scelte individuali e continuando a sostenere collettivamente le sopravviventi che denunciano, come si può continuare ad esercitare un pensiero ed una pratica abolizionista? Di fronte ai crimini sessuali e di genere l’atto immaginativo che ci viene richiesto per pensare un mondo senza prigioni si fa esercizio estremamente complicato e doloroso, eppure necessario. Ci viene in aiuto Davis, che traccia un’articolazione piuttosto chiara della violenza patriarcale, sessista e razzista delle istituzioni, che si concentra sulla figura dello stupratore nero – ma, potremmo aggiungere, dello stupratore migrante, del musulmano sessista, dello straniero violento – a discapito di quella che, già nel 2003, Davis definiva una «pandemia di violenza domestica» passata completamente inosservata, perpetrata da soggetti rispettabili, integranti il tessuto sociale produttivo, per i quali la prigione non è stata prevista né pensata.

DAVIS CI RICORDA, in altre parole, che la credibilità delle donne che subiscono violenza passa ancora dalla profilazione degli aggressori e che un sistema strutturalmente costituito per riprodurre diseguaglianza difficilmente potrà assicurare giustizia sociale. Come ha scritto l’antropologa Rita Segato, uscire dal binomio violenza/punizione è difficile proprio perché questa è l’unica alternativa da sempre proposta. Molto più difficile è immaginare una lotta alla violenza patriarcale che non passi tanto dalla punizione di violenza già accadute quanto dalla trasformazione sociale – sul piano dell’educazione affettiva, della creazione di nuove forme di relazione tra generi – affinché queste non accadano.

Tanto quanto immaginare un futuro in cui le donne che denunciano la violenza di genere vengano semplicemente, prima di tutto, credute, senza il bisogno di una sentenza – il più delle volte viziata da bias razzisti e patriarcali – che stabilisca la verità in base ad anni di galera commisurati oppure no. L’atto di credere alle persone che subiscono violenze è la condizione necessaria e minima per la presa in carico collettiva della loro storia dolorosa, per la riparazione sociale – non di un torto individualmente subito, ma di una ferita alla società intera – per immaginare nuove forme di giustizia comunitaria che rompano l’incantesimo ineluttabile che la prigione esercita sulle nostre vite.

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«Blues e femminismo nero», da Gertrude ’Ma’ Rainey a Bessie Smith fino a Billie Holiday

Il blues, nato in quel crocevia di tradizioni che accoglieva l’eredità degli spiritual e quella sociale dei canti di lavoro, affinò le tecniche della musica di schiave e schiavi in cui la resistenza all’oppressione veniva riportata «in codice», un linguaggio che era necessario conoscere. Analizzando quegli aspetti dei testi e delle performance di Gertrude «Ma» Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday che già preannunciavano una sensibilità femminista, Angela Davis nel libro «Blues e femminismo nero» (uscito per Alegre, pp. 320, euro 20, traduzione di Angelica Pesarini e Marie Moïse, revisione di Pietro De Vivo; prefazione di Raffaella Baritono) mostra attraverso le tre protagoniste che ha scelto di raccontare come questa forma di musica promosse il sorgere di una coscienza della working class black, sfidò l’ideologia dominante e rovesciò le rappresentazioni della sessualità dell’epoca. Il blues femminile rivoluzionò in qualche modo anche l’industria musicale dell’epoca. Davis sottolinea che quel blues allude «a una ribellione femminista ormai prossima poiché nomina senza timori il problema della violenza domestica»: nelle canzoni di Bessie Smith – che rispecchia le mutate condizioni iniziate con la migrazione verso nord e dove il tema del viaggio acquisisce una grande forza simbolica – si trovano infatti riferimenti espliciti agli abusi fisici. (redazione cultura)