Quando nel 1961, in Uganda, nasce la rivista Transition, il fondatore, lo scrittore e poeta Rajat Neogy (1938-1995), raccoglie contributi di autorevoli autori e intellettuali di origine africana come Nadine Gordimer, James Baldwin, Chinua Achebe e tanti altri. Queste menti creano vivi dibattiti internazionali, spesso concentrandosi sulle trasformazioni attuate dalla diaspora africana.

Nel 1968, Neogy, a causa delle critiche al governo locale espresse sulla rivista, viene arrestato e la testata chiude. Nel 1971 tutto rinasce grazie a Wole Soyinka, ma in Ghana e, dopo appena cinque anni, subentrano problemi economici e arriva una nuova chiusura forzata. Dal 1991 Transition è emigrata di continente, attualmente ha sede all’università di Harvard, esce tre o quattro volte l’anno e si concentra sempre sull’universo nero. Nel suo ottavo numero pubblicato negli Stati Uniti, sul finire del 1992, c’è il resoconto di un dialogo che racconta molto su quel periodo storico, sulla rilevanza di un genere musicale per alcuni nuovo e in ogni caso in ascesa mondiale: i protagonisti sono due persone che ancora oggi suscitano molto interesse mediatico. Una è un’icona dell’attivismo, Angela Y. Davis (1944), recente autrice del libro Freedom Is a Constant Struggle. Ferguson, Palestine, and the Foundations of a Movement (Haymarket Books): durante una recente intervista, ha fatto notizia che la rivoluzionaria originaria dell’Alabama abbia espresso simpatie nei confronti della candidatura presidenziale di Bernie Sanders. Sempre di recente, Davis è anche passata in Italia per degli incontri nelle università di Roma Tre e di Bologna. L’altro protagonista è O’Shea Jackson, vero nome di Ice Cube (1969), rapper e attore, sempre più protagonista sul grande schermo, ora con La bottega del barbiere 3 (sequel dei film del 2002 e del 2004) in cui figurano anche altri artisti musicali come Nicki Minaj, Eve e Common.

Nell’introduzione all’incontro tra Davis e Cube, come già rimarcato da altri, con ogni probabilità Transition diventa la prima e unica rivista che usa le parole di Gramsci per presentare ai propri lettori un rapper, definito, appunto, un «intellettuale organico». Già uscito dagli Nwa – gruppo di recente celebrato dal film Straight Outta Compton – e fresco esordiente al cinema con un ruolo importante nel cast della chiacchierata pellicola Boyz n the Hood, Ice Cube all’epoca è perlopiù etichettato come esponente di punta del gangsta rap, definizione creata per inquadrare e semplificare un fenomeno percepito in linea generale come scomodo, soprattutto dal cittadino medio a digiuno di linguaggio e cultura di strada e che lo percepisce come un’apoteosi del linguaggio esplicito, violento, sboccato e politicamente scorretto. Come scrive Jeff Chang nel suo saggio Can’t Stop Won’t Stop (Shake Edizioni), l’incontro tra i due nasce da «un’idea della giornalista Leyla Turkkan (…) una classica ‘parkie’ fricchettona che frequentava graffitisti»: la sua «proposta provocatoria fu accolta con entusiasmo da Davis e Cube».

Due ore di conversazione riassunte in quasi venti pagine di botta e risposta, un confronto tra due generazioni con prospettive differenti tanto che una delle prime cose che Davis dice riguardo la musica di Ice Cube lo sottolinea subito: «(…) Mi fa sentire come se molto del lavoro che abbiamo fatto negli ultimi decenni per cambiare l’auto-rappresentazione di noi Africani Americani, significhi poco o niente per molta gente della tua generazione». Questo e altri punti di vista differenti non creano un conflitto sterile né sopra le righe, anche perché Davis, all’epoca quarantottenne, si sta rivolgendo a una neo-star ventitreenne e, saggiamente, oltre a conoscere il momento storico che stanno vivendo, ha studiato la materia e il personaggio. «Dico bene – continua l’attivista afroamericana – se penso che quando racconti, attraverso la tua musica, quanto succede nella comunità, interpreti vari ruoli, dai voce a personaggi differenti? Te lo chiedo perché molta gente pensa che quando rappi le tue parole riflettano i tuoi pensieri e valori». Considerando che ancora oggi la questione posta da Davis è viva e in qualche modo resterà sempre aperta nei confronti del rap, si intuisce l’importanza del confronto, visto che quel tipo di rap cominciava a venir analizzato fuori dal suo ambiente proprio in quegli anni. «Certo – risponde il rapper losangelino – le persone che dicono che Ice Cube pensa che tutte le donne siano puttane, non ascoltano i testi, non hanno davvero il polso delle situazioni. Penso che non vadano oltre l’aspetto profano. I genitori dicono ‘Oh oh, non si può ascoltare questo’ ma lo abbiamo imparato da loro e dalla tv». E per essere ancora più chiaro aggiunge: «Il linguaggio delle strade è l’unico che posso usare per comunicare con le strade».

A proposito di dare voce a dei personaggi, oggi Ice Cube è più attivo come attore, carriera intrapresa da molti altri rapper ma in cui lui, non a caso, ha avuto ottimi esiti. Da questo scambio in avanti il dialogo entra nel vivo e da entrambi le parti viene fuori una vena retorica: c’è quella di un giovane artista musicale alla ribalta che, per esempio, parla vagamente di crescita umana e artistica avuta tra il primo e secondo album, pubblicati a distanza di un anno l’uno dall’altro – il primo da ventunenne e il secondo da ventiduenne -, e quella di una militante politica matura che cerca di innescare ragionamenti nel suo interlocutore facendo fede all’ideologia della sua generazione del caldo ventennio dei Sessanta e Settanta e, a tratti, facendogli anche la predica. Certo, Ice Cube dimostra di avere un pensiero non del tutto formato, per quanto concreto, mentre Angela Davis uno più strutturato, che poggia sulla sua esperienza e sui suoi studi e veicola con insistenza valori come unità e parità di genere, per esempio. A marcare il divario generazionale, tra le righe, emerge soprattutto il rullo compressore degli anni Ottanta reaganiani, ma non solo. Jeff Chang, oltre a evidenziare qualsiasi divergenza emersa nella discussione, pone anche, con ironia, la questione psicologica: «Angela Davis (…) era cresciuta nel sud come la madre di Cube. (…) Anche se la signora Jackson era molto vicina al figlio, i due litigavano spesso a causa della politica e dei testi di Cube. Insomma, adesso il rapper aveva l’impressione di essere seduto a discutere con la mamma, e Angela si sentiva confusa come qualsiasi madre con un figlio in pieno marasma adolescenziale».

Eppure, alla fine, un mezzo punto di contatto sembra esserci, pur trattandosi di un elemento spiazzante per chi assume un punto di vista critico verso il rap cercando di applicargli i propri dogmi. «Diresti che la tua musica – chiede Davis – sia un appello ai giovani a muoversi da uno stato di conoscenza, una posizione di istruiti, a uno stato di azione e una posizione di attivismo politico che possa trasformare questa società?». «Sì, certo – risponde Ice Cube -. Per me la miglior organizzazione esistente per il popolo nero è la Nation of Islam. È la migliore: fratelli che non bevono, non fumano, non vanno a caccia di donne. Hanno un lavoro. Temono un’unica persona – anche se non direi che è una persona – ossia Allah».

È spiazzante, a maggior ragione, prendendo atto dei tanti rapper Usa di fede musulmana. Forse i detrattori del rap erano e sono dogmatici né più né meno come buona parte dei rapper ma la discriminante è il linguaggio rap, ancora oggi così poco comprensibile e accettabile dai più, con le polemiche, dunque, spesso dietro l’angolo. Non tutti i confronti tra scettici e adepti sono stimolanti come quello avvenuto tra Angela Y. Davis e Ice Cube. Leyla Turkkan di Transition probabilmente aveva colto la portata a suo modo rivoluzionaria (in un’accezione diversa da quella degli anni Sessanta e Settanta) di questo linguaggio musicale. Le rime a tempo esplicite da sempre vengono giudicate più che analizzate; a volte, senza dubbio, possono essere meno consapevoli di quelle di Ice Cube, ma il loro impatto, piaccia o non piaccia, ha avuto e ha una portata epocale.