«Credo nello Spirito Santo della prima persona». La formula con cui Philippe Lejeune ribadiva nel 1986 la propria incrollabile fede nella scrittura autobiografica avrebbe potuto essere tranquillamente sottoscritta anche da Sergej Dovlatov, autore leningradese che della contaminazione divertita tra letteratura e vita aveva fatto una costante della sua prosa. Da Regime speciale al Parco di Puskin, passando per i più lievi (in apparenza) La filiale o La marcia dei solitari, la esibita manipolazione dei dati autobiografici nasconde per Dovlatov la speranza di riscattare la propria esistenza dall’inevitabile compromesso con il reale, trasformandola in una entità esteticamente compiuta, ossia in fabula.

Anche là dove la trama propriamente narrativa si fa più frammentaria e ineffabile, come per esempio nei Taccuini (di recente tradotti brillantemente in italiano da Laura Salmon per Sellerio, pp. 322, euro 14,00), l’io autoriale si erge sempre a garante dell’omogeneità di fondo del testo, riconnettendo schegge ora umoristiche, ora malinconiche grazie a una cifra stilistica invariabilmente scintillante.

A differenza di tanti altri scrittori per cui il taccuino costituiva uno strumento di lavoro o un compagno di viaggio fondamentale ma sprovvisto di una sua autosufficienza estetica, Dovlatov concepiva infatti i propri appunti per la pubblicazione – circostanza tanto più paradossale se pensiamo che negli anni settanta perfino i suoi racconti più «morigerati» venivano puntualmente respinti dalla censura sovietica. Improbabile – a maggior ragione – che i cerberi a guardia delle riviste letterarie lasciassero passare le pur cesellatissime miniature dei Taccuini, costruite di regola su giochi di parole non proprio da educande o sui non meno salaci sfottò all’indirizzo del potere che per gli intellettuali compagni di bevute di Dovlatov costituivano l’unica occasione di sfogo e rivalsa.

Disavventure editoriali a parte, la dimensione estemporanea dell’impromptu domina certamente questi aneddoti strampalati e riaffiora non a caso anche nei titoli implicitamente musicali delle due sezioni in cui sono ripartiti, Solo per Underwood (comprendente le improvvisazioni «composte» con la macchina per scrivere tra il 1967 e il 1978) e Solo per Ibm, che riunisce invece quelle successive all’emigrazione a New York avvenuta nel 1979. In entrambe, i ferri del mestiere dello scrittore si trasformano, almeno metaforicamente, in uno strumento musicale a pieno titolo, docile all’estro capriccioso dell’autore e ai suoi guizzi.

Se tuttavia di assoli si può parlare (in ossequio anche all’attestata passione di Dovlatov per il jazz), occorre però precisare che si tratta di pezzi per lo più attinti a quella peculiare trama verbale in cui l’io narrante aveva vissuto immerso per lungo tempo e cioè, come scrive Salmon nella sua postfazione, «all’universo sonoro della lingua nativa». Dovlatov era infatti un geniale collezionista dei più svariati objet-trouvé linguistici, frasi colte casualmente per strada, lapsus imbarazzanti, oppure sentenze pronunciate da amici e conoscenti che lo colpivano per il loro carattere lapidario o straniante, in grado di illuminare i risvolti più spassosi dell’incongruenza umana. Alcuni aneddoti appaiono profondamente radicati nella quotidianità sovietica dell’epoca, come per esempio quello della scrittrice Ol’ga Fors che, sfogliando il registro dei reclami di una mensa per letterati, si chiedeva se la constatazione «Nel semolino finiscono regolarmente degli insetti boschivi» fosse da intendersi come una lamentela, o non piuttosto, stante la cronica mancanza di carne, come una espressione di gratitudine. Altri, invece, sono decisamente più neutri, e valgono per tutti i luoghi e i tempi: «Come vuole che le tagli i capelli?’ ‘In silenzio’».

Come nota la curatrice, l’immersione divertita nell’oceano sonoro della lingua russa a caccia di perle surreali costituiva l’unico momento di auto-definizione identitaria per Dovlatov, fin dall’infanzia scisso tra la nazionalità ebraica del padre e quella armena della madre. Meno esilarati di lui erano talora i suoi conoscenti che, per una frase quasi sempre concepita in stato d’ebbrezza, si vedevano inseriti con tanto di nome e cognome in quel grottesco album di famiglia della cultura russa underground che sono i Taccuini.

L’obiettivo impietoso di Dovlatov tende infatti a cogliere i suoi protagonisti nelle pose meno dignitose, oppure a deformarli in un sosia apocrifo che poco ha a che vedere con l’originale.

L’autobiografismo dunque confina perennemente con la mistificazione, e da questo punto di vista, quasi nulla cambia nel passaggio «tecnologico» dalla Underwood leningradese al computer Ibm americano. Restano immutati i temi: l’ironia come unica arma per far fronte alle emergenze quotidiane, l’assurdo come tonalità dominante dell’esistenza umana, la sensazione perenne di esclusione sociale sperimentata dall’intellettuale non allineato, incapace di trovare una lingua in comune anche con la dissidenza («Dopo i comunisti più di tutti detesto gli anticomunisti»). Pressoché identici – malgrado la cesura geografica introdotta dall’emigrazione – sono anche i personaggi cui l’autore dà voce, esponenti di spicco di quell’intelligencija leningradese che si era andata formando negli anni sessanta tra le prime iniziative editoriali del samizdat e il magistero poetico e morale di Anna Achmatova. A primeggiare su tutti è certamente Iosif Brodskij, concittadino nonché compagno d’esilio, per il quale Dovlatov nutriva una venerazione autentica, non velata da ironie. Apocrifi o reali che siano, gli episodi a lui legati introducono immancabilmente nella trama dei Taccuini una nota di umorismo lapidario e insieme trasognato che si distacca in misura notevole da quello talvolta un po’ grossolano di altri personaggi.

Eppure, al di là dell’innegabile continuità tematica e stilistica tra le due parti, qualcosa cambia, ed è proprio la fisionomia dell’io autoriale, ossia il volto dello stesso Dovlatov. Uscito nel 1990, poco prima della scomparsa prematura dello scrittore, Solo per Ibm è contrassegnato infatti da una intonazione più pensosa e malinconica, che non di rado sconfina nella riflessione filosofica o nell’aforisma. «Ho l’età in cui ogni volta che compro le scarpe mi viene da pensare: ‘Sarà mica con queste che finirò nella bara?’», osserva l’autore tra lo scherzoso e il preoccupato, ed è proprio questa sensazione del tempo che passa a spingerlo a riflettere sul proprio mestiere in generale e sulla letteratura russa in particolare. Un apparente paradosso per l’ammiratore di Hemingway, Vonnegut e Dos Passos che, prima di approdare a New York, leggeva quasi esclusivamente quel poco della narrativa americana che dagli Stati Uniti giungeva in Urss. Se dunque le ultime pagine dei Taccuini sembrano confermare la famosa affermazione di Nikolaj Gogol’ per cui della Russia si riesce a scriver bene soltanto risiedendo all’estero, d’altra parte il ripiegamento estremo di Dovlatov sulla cultura d’origine è anch’esso segnato dalla coscienza del proprio essere «out of joint», sconnesso e scardinato rispetto a ogni tempo e luogo, proiettato in quel mondo a parte che è la scrittura: «Quando percepiamo qualcosa in modo confuso, è ancora presto, si direbbe, per scrivere. E quando tutto ci appare chiaro, non resta che tacere. Dunque, per la letteratura non c’è mai un momento giusto».