Figura catalizzatrice delle energie creative di una New York che affrontava i cambiamenti più determinanti del XX secolo, Andy Wahrol rappresenta tutt’oggi, con la sua opera, un’imperdibile chiave interpretativa per l’evoluzione e la fruizione dell’arte contemporanea successiva. Padre autentico della cultura pop, ricordato paradossalmente come foriero della crisi del concetto di unico e irripetibile in arte, Andy Warhol moriva 30 anni or sono in un letto del New York Hospital-Cornell Medical Center in seguito a un intervento di routine. BeccoGiallo, punta di diamante dell’editoria nell’ambito del bio-graphic novel, pubblica un lavoro a quattro mani sull’artista statunitense. Adriano Barone- sceneggiatore di fumetti e cortometraggi- e Officina Infernale -al secolo Andrea Mozzato- grafico e fumettista, sono gli autori di Warhol.L’intervista, un libro multiforme che con ironia rende al grande pubblico un personaggio ambiguo e imprescindibile per la lettura, non solo dell’arte, ma della nostra contemporaneità tutta. Ne abbiamo parlato con gli autori.

Adriano, la storia di Warhol viene raccontata attraverso un’intervista condotta da un personaggio esterno alla narrazione, che potrebbe essere l’autore del graphic novel. Al di là dell’efficacia del dispositivo narrativo e tenendo conto del divertente dialogo che si instaura tra i due, esiste una ragione intima che ti ha portato a questa scelta?
Sono sicuro che quella voce over non sia l’autore del graphic novel. Si tratta di un narratore che capisce qualcosa di fumetti, ma è solo un personaggio del fumetto sempre fuori campo. Forse quel personaggio è un giornalista spazientito. Forse è Dio. Soprattutto verso il finale non credo si possano davvero avere certezza sull’identità di quel personaggio. Anzi, di quella voce.

Quali sono le principali fonti che avete usato? Ci sono moltissime citazioni e stralci di intervista nel vostro libro…su cosa vi siete concentrati per selezionarle e dove sei intervenuto con la scrittura?
Ho letto più di una biografia di Warhol, libri di interviste, suoi scritti, ho visto documentari e interviste video di ogni tipo e anche delle pubblicità in cui Warhol compariva, perché era molto richiesto come testimonial soprattutto in quella che sarebbe stata l’ultima parte della sua vita.
Dopo un po’ mi sono reso conto che le 200 pagine di fumetto che avevamo a disposizione, pur tantissime, erano comunque insufficienti a coprire la vastità di fatti interessanti e aneddoti relativi a Warhol. 
Quindi, da un lato, non ho insistito molto nel presentare le opere, utilizzandole piuttosto come sfondo delle vignette e mostrando intanto fatti realmente accaduti. Dall’altro ho selezionato quali fatti raccontare: volevo scrivere una commedia-una commedia particolare certo, a volte un po’ cupa, ma una commedia. Andrea mi faceva notare che per essere una biografia d’artista, “Warhol – L’intervista” è davvero molto pulp: ci sono tre sparatorie (realmente accadute) solo nella prima metà del libro…

Spesso nel libro Warhol scherza sul fatto che vengono raccontati i fatti meno noti della sua produzione. A che tipo di pubblico avete pensato scrivendo il libro: a chi conosce già l’opera di Warhol o anche a chi vi si avvicina per la prima volta?
Ho cercato di mantenere un difficile equilibrio: presentare comunque i fatti principali della vita di Warhol per chi non sa proprio nulla dell’artista, ma raccontare anche qualche fatto o qualche opera meno nota a chi già lo conosceva. Il tutto ha prodotto un fumetto molto denso, ma dato che mi pare che il risultato finale sia divertente, penso anche molto scorrevole nella lettura.

La lettura del vostro libro mi ha confermato quella che sospettavo essere la mia opinione sull’artista di Pittsburgh: non è possibile slegare l’impronta mediatica e artistica dalla sua forza visionaria, ovvero, la capacità di interpretare la realtà del suo presente e darci in pasto la chiave del futuro. Cosa ne pensate?
Ah, questo è proprio il motivo per cui da anni avevo in mente di scrivere su Warhol. Quest’uomo negli anni ’60 aveva capito non solo la realtà del capitalismo e della società dello spettacolo, ma pareva averne intuito gli sviluppi per i successivi 50 anni: il prodotto commerciale e ripetibile in serie come oggetto d’arte, per esempio; o l’idea che le rappresentazioni del reale (all’epoca nelle serie tv e nel cinema) si confondessero con la realtà e ci rendessero insoddisfatti delle nostre vita, così premonitrice se pensiamo al nostro rapporto coi social…. La rappresentazione è più importante della realtà: Warhol l’aveva capito e ne aveva previsto le conseguenze e oggi viviamo nella sua testa, o in un suo incubo. 
 
Il vostro libro dedica un momento importante alla “scoperta” della finzione come modalità artistica, giustificandola su tutta la linea. Come si usa la finzione quando si scrive una biografia?

Quando scrivo qualcosa basato su fatti reali divento paranoico all’idea che qualcuno mi faccia notare che non sia andata così. Quindi ho fatto ricerche approfondite e ho utilizzato due metodi per poi trasformare in racconto il materiale informe che costituisce la vita di un essere umano. Il primo è l’esagerazione comica: alcuni fatti sono accaduti veramente, ma sono raccontati in un modo e con tempi comici tali da renderli delle gag. Il secondo è il fatto che diverse situazioni sono raccontate in maniera totalmente diversa a seconda della fonte consultata, quindi non esiste la possibilità di verificarle (specialmente se le persone coinvolte sono morte): allora ho sfruttato queste contraddizioni sottolineando l’impossibilità del realismo e l’obbligo della finzione, anche qui sfruttandone il potenziale comico. Questo fumetto non vuole essere un documentario su Warhol, ma una commedia surreale ispirata a fatti reali della vita dell’artista. 

Warhol ha saputo coniugare l’aspetto schivo e criptico di certe interviste con la popolarità più letteralmente intesa, tanto da far coniare il termine pop. Ha cavalcato, artisticamente parlando, l’importanza dei 15 minuti di celebrità. Che peso ha, secondo voi, nella nascita dello star system?

Direi che lo star system esisteva già allora, ma Warhol ha inventato il concetto di “famoso in quanto famoso” ed è stato il primo a far capire che anche l’artista, o se vuoi il creativo, doveva inventarsi un proprio brand e vendere sé stesso come parte integrante della propria produzione. Oggi questo atteggiamento nato con lui è arrivato a un punto tale che a volte il personaggio conta più della sua opera. Anche questo Warhol l’aveva anticipato. 

Warhol ha già fatto film, ma nel 1966 crea il suo primo spettacolo teatrale, Exploding Plastic Inevitable, inaugurando così un percorso performativo. Anche il vostro fumetto è diventato uno spettacolo teatrale, è forse un caso?
La scrittura del testo teatrale Andy&Warhol è stata davvero un caso: ero a circa metà della scrittura del fumetto, quando mi resi conto che avevo due idee completamente opposte sull’identità dell’intervistatore. Dovevo fare una scelta, e una avrebbe escluso l’altra. Così ho scritto un testo parallelo in cui ho utilizzato una di queste versioni, semplicemente per togliermela dalla testa.
Non avevo la minima idea di cosa fare di quel copione, quindi l’ho mandato a Simone Belli, stuntman, attore e regista teatrale con cui collaboro, e lui mi ha semplicemente detto: “Andy Warhol? Facciamolo.” 
Lo spettacolo teatrale è molto diverso dal fumetto non solo per l’ovvia differenza delle due forme espressive ma anche per l’identità totalmente diversa dell’intervistatore. Inoltre la regia di Belli e l’eccezionale fisicità di Jacopo Bottani fanno emergere un Warhol segreto, che nel mio testo è solo nascosto. Quindi i due risultati sono diversissimi: ci tengo a dire che, nonostante le similitudini, Andy&Warhol è un progetto parallelo ma non tratto dal fumetto. 

Fumetto che esce dalle sapienti ed eclettiche mani di Andrea Mozzato: Officina Infernale ha il compito altissimo di disegnare quest’intervista. Il concetto di copia sta alla base di tutta l’arte di Warhol e direi anche del vostro fumetto: questo è soprattutto vero rispetto alla figura del protagonista. Cosa ne pensi?
Attraverso la serigrafia, Warhol ha portato nell’arte il concetto di riproducibilità, tecnica che può essere sia artistica che industriale: hai un cliché di stampa e ne fai quante ne vuoi,  introducendo così una sorta di “produzione di massa” nell’ opera d’arte. Consumismo, pubblicità, televisione, cinema, ne avevano consolidato i codici e Warhol rappresentava così la realtà di quel tempo. Era l’artista giusto nel momento giusto. Mentre molti artisti della pop art si limitavano alla pittura, Warhol andò oltre, sperimentando nel cinema, nella grafica e nella fotografia, forme espressive del tempo: negli anni ‘80 si stava avvicinando anche alla computer grafica. A ben vedere certi suoi lavori potrebbero essere fotogrammi di un film; allo stesso modo i suoi lavori diventavano copertine di dischi. Spingendosi oltre, Warhol divenne icona del suo tempo.
Nel rispetto dello stile pop, il libro è-concedimi l’espressione- multimaterico. Hai usato foto, retine, ritagli, immagini e poi come le hai lavorate?
Ho sempre usato il digitale per riprodurre l’analogico a livello visivo; alcune parti sono disegnate, altre sono immagini rielaborate a Photoshop. Poi ho assemblato tutto in modo da non capire più dove inizi uno e finisca l’altro; in più ho aggiunto una buona dose di anarchia creativa, feticismo grafico e influenze hardcore. Per le future mostre creerò degli “originali” da esporre, partendo dai file, usando poi una tecnica che chiamo destrutturazione: assemblo le varie parti, stampate su carte diverse e dopo vi intervengo manualmente.
Il fumetto e quindi la narrazione sequenziale ha un ruolo importante nella formazione visiva di Andy. Anche voi- come l’artista- però ve ne siete intelligentemente allontanati, dando grande rilievo a materiali diversi, ma anche a testi inseriti sulla tavola , quasi come highlight. È stato facile mantenere l’equilibrio tra immagini e testo?
Vengo dalla grafica dove testo e immagine vanno di pari passo. Non sono proprio un fan del fumetto tradizionale, quindi per me è stato abbastanza naturale inserire il testo oltre il tradizionale balloon. Immagini e testo hanno pari importanza, quindi uso quest’ultimo come elemento grafico: basta pensare alle copertine di dischi, oppure alle copertine dei fumetti di supereroi degli anni 70, un insieme di immagini, logo, scritte che “uscivano” dalla pagina, formando alla fine un’immagine unica.

In un libro graficamente molto riuscito ci si sono un paio di soluzioni molto efficaci: penso all’”effetto Warhol”, alla stessa immagine del protagonista più o meno zoomata in diverse vignette e anche alla sequenza dell’hamburger. In quali parti sei rimasto aderente solo all’iconografia warholiana, e in quali hai cercato di distanziarti?

Di solito quando parto da un progetto mi distanzio da tutto, poi rielaboro a livello istintuale; Warhol come soggetto era perfetto per le mie sperimentazioni visto che da qualche anno sto realizzando fumetti basati sulla ripetizione e dove non c’è nulla di disegnato. Del fumetto mi interessa il meccanismo, poi ci riverso un mare cose, influenze e tutto quello che mi passa per la testa. 

Entrambi avete alle spalle molta esperienza e lavori anche piuttosto diversi tra loro. È la prima volta che affrontate una biografia? Com’è stato lavorare insieme?

Adriano Vittore: Per me questo è il primo fumetto biografico, e la ricerca mi ha talmente distrutto che la mia reazione immediata è stata pensare che non ne scriverò mai un altro. Però Andrea mi ha già fatto la classica offerta che non si può rifiutare: è un autore completo e ha una personalità artistica fortissima e ben definita, quindi sapevo che avrebbe cambiato alcuni elementi della mia sceneggiatura, anzi lo speravo. Dato che è un fiume di idee ed è totalmente pazzo, ero sicuro che sarebbe venuto fuori qualcosa di totalmente inedito: dal punto di vista grafico, il nostro libro è abbastanza singolare. Quando Andrea suggeriva dei cambi preferivo modificare senza chiedergli di adeguarsi alle mie scelte iniziali. Molto più interessante lavorare così, con un processo creativo più stratificato, che rende più piacevole anche la lettura.

Officina Infernale: Prima volta anche per me: ho dovuto usare un approccio completamente diverso rispetto alla fiction che uso di solito, ho usato molti riferimenti fotografici, ho modificato il mio  stile, anche se questo libro può rientrare in una delle mie due correnti di lavoro che ho chiamato Hyperpop. Con Adriano non è stata la prima volta invece, abbiamo fatto varie prove in passato, ma nulla era mai andato a buon fine, nulla paragonabile a questo lavoro, che ho svolto in completa libertà (che poi è l’unico modo di lavorare per me).
 
È cambiata la vostra percezione dell’artista dopo aver lavorato alla sua biografia? Qual è il messaggio, se così si può chiamare, della sua arte che vi è più caro?

Adriano Barone: No, in realtà ho raccontato l’artista secondo un mio punto di vista, rispettando quella sorta di “nichilismo zen” cui Warhol è stato comunque maestro. Warhol ripeteva sempre che “Niente ha importanza”. Io dico “Niente ha importanza, ridiamoci su.”

Officina infernale: Mi piace pensare che Warhol aveva previsto tutto; mi piace l’attitudine annoiata e glamour che aveva, mi piace sapere che era sempre sul pezzo e applicava la sua creatività in campi diversi, cinema, pittura, grafica, fotografia; era attento alle nuove tendenze, »era cosciente del presente ma anche un po’ del futuro, non era sicuramente ancorato al passato, ma la cosa che mi piace di più e che allo stesso tempo non gliene fregasse nulla.