La morte di Andrzej Zulawski sottolinea definitivamente quel senso di trauma assoluto che per tutto il cinema ha voluto diventare il suo ultimo film: ma del sublime Cosmos questo giornale ha saputo essere attento spettatore, da Cristina Piccino a Cecilia Ermini che l’ha indicato giustamente come suo film dell’anno. Ci basti aggiungere che la sua realizzazione andrà tra i meriti più alti del produttore Paulo Branco, aggiungendosi ai film finali di Monteiro e Schroeter che senza Branco non sarebbero esistiti.

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E così è di Cosmos senza il quale gli odierni necrologi dovrebbero definire Zulawski come un ex-cineasta che dopo il 2000, anno del suo precedente La fidélité parimenti prodotto da Branco, aveva lasciato il cinema per diventare scrittore, seguendo le orme del padre e dello zio, entrambi letterati: al primo s’ispirò il lungometraggio d’esordio del regista La terza parte della notte, dal volume più classico del secondo, Andrzej aveva invece tratto il suo precedente film più «cosmico» e di più laboriosa e censurata realizzazione, Sul globo d’argento, uscito nel 1988.

Va a onore dell’ultimo festival di Locarno aver saputo accogliere il regista con un film che divide purtroppo anche la critica più perspicace giustamente sfidandola. Negli ultimi 15 anni Zulawski era diventato autore di testi drammatici e narrativi, pubblicati in parte anche in Italia per le cure di Andrea Salimbeni, Marina Fabbri, Sergio Nàitza (che nel 2003 ha curato un omaggio con volume per il Trieste Film Festival) e sorprendentemente di Luigi Cozzi che ha accolto nel 2014 Sette piccoli film che parlano di musica e ne fanno uno solo nelle avventurose edizioni Profondo Rosso, sottolineando come anche in passato il regista colpisse più per gli eccessi disseminati nella sua opera che per un suo apparente rigore.

Ma chi ha frainteso così (per esempio i «Cahiers du cinéma» all’epoca del loro negazionismo cinematografico mentre dell’opera prima di Zulawski si accorgeva «Positif»), o chi fraintende il film finale come un gioco persino malriuscito, dovrà alfine ammettere che Zulawski tocca l’essenza del cinema, creando immagini che trattengono il persistere della vita rispetto ai destini di morte (immense le reliquie animali che nel film pongono confini al territorio della vita, e immenso nelle immagini di coda lo scoprire nel set cinematografico un luogo di sospensione tra vita e morte).

Il recente ritorno al cinema si confronta con un testo scritto per eccellenza come quello di Gombrowicz, con più fidélité dello Skolimowski di Ferdydurke ispirato allo stesso scrittore. Evochiamo di nuovo qui il titolo del penultimo film di Zulawski che fu tratto da Madame de la Fayette un anno dopo che Oliveira ne aveva tratto La lettre. Insomma tutto ci dice che il «cineasta per caso» Zulawski s’inserisce al centro delle ossessioni di cinema anche rispetto al diverso dar loro vita che è della scrittura, e non esitiamo a collegarvi un altro cineasta del verbo incrociato da Paulo Branco, David Cronenberg (il suo Cosmopolis sembra sin dal titolo unirsi in dittico allo Zulawski), e parimenti via Sabine Azéma il grande Alain Resnais.

Il film d’esordio di Zulawski fu nel 1971 La terza parte della notte e vedendolo allora alla prima Mostra di Venezia diretta da Rondi (forse la più audace della storia del festival) ce ne attrasse subito un delirio d’indubbia forza, come solo da quella cinematografia poteva giungerci, dopo Kawalerowicz, Skolimowski e Borowczyk, e poco prima di Krolikiewicz. Non sapevamo ancora che il regista si era formato con Wajda, il cui cinema controlla invece gli eccessi senza tuttavia la splendida lucidità di Munk. E subito ci colpì la centralità di una figura femminile, interpretata da Malgorzata Braunek (che tornerà nel seguente e tardivamente uscito film polacco pre-esilio, Diabel), presenza di stranissima attrazione che ben introduce a un cinema di corpi femminili sconvolgenti: la più esaltata di sempre (più che in Visconti) Romy Schneider di L’importante è amare, la Isabelle Adjani (anche stavolta più estatica che per Truffaut e Polanski) di Possession, o apparizioni di meteorico divismo come Valérie Kaprisky in La femme publique, Delphine Forest in Boris Godounov, Iwona Petry in La sciamana, tutte nel prolungato rigenerarsi dell’anche compagna Sophie Marceau (L’amour braque. Mes nuits sont plus belles de nos jours, La note bleue, La fidélité: tetralogia essenziale di Zulawski tra il 1985 e il 2000), per arrivare nell’ultimo film alla sorprendente, bellissima lusobritannica Victoria Guerra.

Quando poi Zulawski ci fece capire, all’omaggio a Trieste, che il suo atteggiamento verso le sequenze ai limiti dell’hard di L’importante è amare sembrava coincidere con quello del produttore che nella finzione del film le osserva ripetendo «che schifo!», non ci fu subito chiaro come ciò evidenziasse nella sua opera il conflitto, quintessenziale per il cinema, tra attrazione fisica e sua sconfitta.

Molti avevano preso il cinema di Zulawski per un bricolage di misticismi erotizzati. Si ebbe spesso la sensazione che non si sapeva bene dove questo cinema andasse, e quando per tanti anni Zulawski restò fuori dal cinema si giunse a pensare che in fondo non vi era indispensabile. Perciò la scelta di produrne un nuovo film da parte di Paulo Branco ha un merito persino superiore al suo sostenere cineasti d’indiscutibile grandezza come Oliveira, Ruiz o i sopra citati.

Grazie a questo geniale azzardo produttivo oggi Zulawski non potrà che diventare autore di riferimento anche per quanti «non seppero bene che farsene» o lo considerarono troppo rinchiuso in dei sottogeneri (quasi un Jean Rollin di serie A).

Per noi egli diventa oggi, senza attendere ancora più tardive riscoperte, parente stretto di un altro cineasta che seppe sfidare miopie cinefile, l’italiano Valerio Zurlini, di cui ogni volta che si rivede un film ci appare più essenziale. Oggi l’importante è amare il cinema di Zulawski.