«La guerra è affare di uomini». Quante volte l’abbiamo sentita e risentita, questa frase? Non abbiamo constatato il suo inveramento ancora una volta, per l’ennesima volta, nell’interminabile conflitto in Ucraina, con le donne lasciate libere di fuggire dal paese a differenza di quasi tutta la popolazione maschile? Una frase che pare una constatazione più che una ingiunzione, la semplice descrizione di un dato di realtà più che una prescrizione a cui la realtà deve uniformarsi. Una frase di sempre, buona per tutte le epoche; una frase senza storia.

E tuttavia, una storia ce l’ha. C’è un testo in cui appare per la prima volta, almeno in forma scritta: l’Iliade di Omero, uno degli archetipi della nostra tradizione letteraria (copyright Franco Ferrucci). In uno dei passi più celebri del poema, nel canto VI, Ettore, capo dell’esercito troiano, incontra sua moglie Andromaca, in ansia per la sorte del marito che sta per tornare in battaglia, e dopo averla rassicurata la rimanda a casa a lavorare al telaio perché, appunto, alla guerra devono pensare gli uomini.
In effetti, quando si pensa all’Iliade, sono soprattutto i guerrieri che balzano alla mente, Achille, Ettore, ecc. Tuttavia, per quanto stretto sia il ruolo loro assegnato, la presenza delle donne è tutt’altro che marginale nell’epica e nella ricchissima tradizione letteraria che riprende, continua o riscrive quegli episodi, come documenta adesso Il grido di Andromaca Voci di donne contro la guerra, a cura di Alberto Camerotto, Katia Barbaresco e Valeria Melis (De Bastiani Editore, pp. 252, euro 15,00).

Il libro raccoglie ben diciotto contributi, tutti di autrici femminili salvo l’epilogo, ed è il frutto di una inedita collaborazione tra giovani studiose che operano nel laboratorio Aletheia dell’Università di Venezia e studiose di letteratura greca e latina affermate da tempo. La ricerca coinvolge autori distribuiti in un amplissimo arco di tempo, dall’VIII secolo a.C. al IV secolo d.C., da Omero a Virgilio al poco noto Quinto Smirneo, senza trascurare né i grandi tragici del V secolo (Eschilo, Sofocle, Euripide) né la commedia di Aristofane, e privilegia aspetti meno indagati di testi perlopiù molto noti grazie alla loro presenza nel canone scolastico. Come ad esempio il pianto delle donne troiane, di Andromaca come della regina Ecuba, che si configura «come narrazione della guerra alternativa a quella proposta dalle retoriche eroiche maschili» (Federica Leandro) che finisce per mettere in crisi i criteri di valore consolidati. O come Tecmessa, la schiava concubina dell’eroe greco Aiace, figura non menzionata nell’Iliade ma che nella tragedia sofoclea esce dall’ombra per «smontare le argomentazioni con cui Aiace giustifica la scelta del suicidio» (Chiara Mingotti), in polemica con l’ideologia eroico-aristocratica che giustifica, anzi richiede quel suicidio. O le giovani donne che formano il coro dei Sette a Tebe di Eschilo, che il re Eteocle vorrebbe zittire per il timore che i loro foschi presagi sulle disumane conseguenze del conflitto imminente possano intaccare la fermezza dei cittadini-soldati; un coro che non solo dà voce a un punto di vista femminile ma che rende la tragedia «uno strumento di indagine e di costruzione del reale, che mira a mostrare non già l’assenza di una verità, ma il suo carattere plurale» (Manuela Giordano). O le conseguenze linguistiche di quell’attacco comico al dominio maschile da parte delle donne stanche della guerra, messo in scena nella Lisistrata aristofanea, in cui «morfologia, lessico e sintassi riflettono un unico grande significato: le donne sono un insieme, e quindi agiscono insieme» (Elisabetta Biondini).

Ma non c’è il rischio, per questa via, di rimanere ancorati a una visione essenzialista, quella per cui il legame tra le donne e la pace sarebbe ‘naturale’ e che anche per questa via rafforza l’idea che le donne siano ‘naturalmente’ predisposte alla cura? Una visione riproposta anche in tempi recenti e recentissimi. Una visione tuttavia non così scontata nel mondo antico, se è vero che sia il mito sia la letteratura pullulano di donne incapaci di controllarsi, violente fino all’omicidio di figli e mariti (Medea, Clitennestra e tante altre), in patente contraddizione con l’esaltazione della moglie ideale, fedele e devota alle cure domestiche (la donna-ape di una celebre tirata misogina del poeta arcaico Semonide). Una rappresentazione contraddittoria la cui radice va rintracciata nel proposito di «relegare le donne al ruolo materno, escludendole allo stesso tempo dalla guerra e dal governo, sia in quanto pericolose sia, al contrario, in quanto imbelli» (Marcella Farioli).

Se Lisistrata vuole la pace al punto da proclamare il primo «sciopero del sesso» della storia, insomma, non è tanto per un ‘naturale’ pacifismo ma per la sua appartenenza a una categoria oppressa; è per una questione di diseguaglianza di potere tra chi decide e chi subisce. Ieri come oggi.