Studioso e giornalista americano, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Andrew Spannaus analizza da anni le conseguenze politiche e sociali della grandi crisi attraversata dall’economia neoliberale in tutto l’Occidente, e in modo particolare negli Stati Uniti. Temi ha cui ha dedicato diverse opere, da Perché vince Trump a La rivolta degli elettori, fino al recente L’America post-globale (Mimesis, pp. 188, euro 15, prefazione di Giulio Sapelli), nel quale passa in rassegna il contesto, a partire dall’irrompere della pandemia, che ha fatto da sfondo alla sfida elettorale per la Casa Bianca, annunciando per molti versi il Paese che verrà.

È trascorsa una settimana dalle elezioni e Trump non sembra avere alcuna intenzione di riconoscere la sconfitta. Cosa dobbiamo aspettarci?
Non vuole concedere la vittoria a Biden, ma fino ad ora né lui né i repubblicani hanno presentato prove serie di brogli e le tesi in tal senso che girano in rete o sui social sono del tutto infondate. Trump sta rallentando il processo di transizione, visto che diversi funzionari della sua amministrazione si stanno rifiutando di dare il via alla procedure di passaggio delle consegne, e questo renderà più difficile per Biden entrare in carica in modo efficiente. L’altra considerazione che si può fare riguarda il fatto che tutto questo certo non contribuisce a rafforzare la fiducia nelle istituzioni in un Paese in cui 71 milioni di persone votando Trump hanno già dimostrato di averne ben poca.

[do action=”citazione”]Il pericolo è che la politica del Paese si possa schiacciare sul cosiddetto «centro-moderato» e che per questa via si taglino fuori sia l’ala più di sinistra dei democratici che le tendenze populiste e anti-liberiste emerse tra i repubblicani[/do]

 

Venendo alla vittoria di Biden, si tratta di un risultato che si è caricato di molte aspettative, ma concretamente cosa potrà fare la nuova amministrazione per dare una svolta al Paese?
Biden arriva alla presidenza sulla base di una campagna per così dire negativa, per il solo fatto di «non essere» Donald Trump. E per questo ha messo in secondo piano alcuni temi di grande sostanza. Lo ha fatto perché per un verso lui è sempre stato un moderato, un centrista, che non vuole perseguire obiettivi «rivoluzionari» come ha detto riferendosi al programma di Bernie Sanders, dall’altro per evitare di esacerbare le divisioni all’interno dello stesso Partito democratico. Questo non toglie che abbia comunque avanzato alcune proposte forti soprattutto a livello di intervento economico e sociale. La mancata vittoria dei democratici al Senato, non è ancora tutto deciso ma sarà molto difficile che alla fine ottengano la maggioranza, e l’arretramento alla Camera dei rappresentanti, renderà però molto più difficile assumere delle decisioni nette. Il grande rischio è che la politica si possa schiacciare sul cosiddetto «centro-moderato» e che per questa via si taglino fuori sia l’ala più di sinistra dei democratici che le tendenze populiste e anti-liberiste emerse tra i repubblicani.

Nel suo nuovo libro, «L’America post-globale», sembra però suggerire come le terribili conseguenze sociali della pandemia possano rendere più difficile tornare alle politiche di un tempo.
Alla luce del drammatico contesto odierno nessuno contesta più la necessità di avere un’economia più resiliente, più forte e che non si basi solo sulla finanza. O di mettere in discussione i meccanismi della globalizzazione che hanno portato a maggiore precarietà, a grandi difficoltà per la classe media, alla perdita della produzione industriale. Solo che cambiare questo stato di cose non sarà facile. Perché una cosa è voler migliorare un po’ la situazione, altro è cercare di superare i problemi creati nello spazio di quarant’anni. Il contesto offre comunque delle opportunità enormi: il Congresso ha approvato spese molto ingenti già nei primi mesi della pandemia senza preoccuparsi del debito pubblico e dimostrando che è possibile spendere per le infrastrutture, per la sanità, per il welfare purché l’economia resti solida e produttiva. Gli strumenti adesso ci sono, si tratterà di vedere se la Casa Bianca a guida Biden intende procedere con determinazione per questa via.

[do action=”citazione”]Durante le primarie era stato molto cauto, ma di fronte alla pandemia Biden ha adottato una linea simile a quella di Franklin Roosevelt, il presidente che ha creato buona parte dello Stato sociale americano durante gli anni della Grande depressione[/do]

 

La crisi economica e sociale ha prodotto quella «rivolta» degli elettori nel segno della rabbia e del rancore che lei ha analizzato a lungo. Biden potrà restituire la fiducia a questi milioni di americani?
La vittoria di Trump nel 2016 è arrivata dopo decenni di difficoltà crescenti per il ceto medio. In precedenza anche Obama aveva intercettato una parte di quel malessere, solo che una volta arrivato alla Casa Bianca era stato troppo timido quanto alle scelte assunte e si era fatto condizionare dal tradizionale gioco politico centrista. Durante le primarie era stato molto cauto, ma di fronte alla pandemia Biden ha adottato una linea simile a quella di Franklin Roosevelt, il presidente che ha creato buona parte dello Stato sociale americano durante gli anni della Grande depressione. Ora dovrà riunire il Paese, affrontare il grandi tema del razzismo, ma allo stesso tempo immaginare un nuovo intervento pubblico in materia economica e sociale, tale da convincere con atti concreti quel 48% di americani che non si fida più dei media e delle istituzioni.