La scelta di un’opera di Arcangelo Sassolino per la copertina del nuovo romanzo di Andrea Tarabbia, Il Continente Bianco (Bollati Boringhieri, pp. 252, € 16,00) è tutt’altro che casuale, visto che un’altra opera dello stesso artista, Figurante, compare già nella prima pagina, a costituire e per l’io narrante una sorta di rappresentazione della dimensione esistenziale contorta e contraddittoria di cui farà esperienza. È una scultura in metallo somigliante al muso feroce di un lupo con denti potenti, capace, se azionato, di stritolare il femore di un toro. Nel romanzo la scultura; presenza poco rassicurante, si trova nella casa/studio dello psicanalista di cui l’io narrante è paziente, il dottor P***: «Prendo soltanto pazienti che sono in grado di trascorrere qualche minuto da soli in sua compagnia» dice il medico, fornendoci da subito un indizio essenziale. Stare accanto alla scultura comporta l’aprirsi verso una dimensione di animalitas, misteriosa, attraente e inquietante.

La voce narrante è quella di uno scrittore che si chiama Tarabbia, e che forse si rivolge al dottor P*** anche per comprendere un suo fallimento. Finora infatti egli aveva scritto storie, originate da fatti storici: il sequestro di mille persone in una scuola a Beslan, in cui morirono trecentotrentaquattro persone di cui centoventisei bambini (Il demone a Beslan, 2011), la storia di un serial killer sovietico (Il giardino delle mosche, 2015), la vicenda torbida in cui è coinvolto il principe madrigalista Gesualdo Da Venosa (Madrigale senza suono, 2018). Il fallimento cui lo scrittore ora si riferisce riguarda il tentativo di scrivere la storia di una donna qualunque incontrata durante un viaggio, che egli ha cercato, senza riuscirci, di proteggere. «Se si protegge qualcuno di cui si vuole scrivere si altera il mondo, lo si piega alle proprie voglie e perfino al proprio senso di giustizia, e un mondo piegato a tutto questo è un mondo giusto, senza scandalo né orrore, ma non è un mondo che può entrare in un libro».

Dall’«Odore del sangue»
Lo scrittore si rivolge perciò di nuovo a un «dato di fatto», in questo caso, un altro romanzo: L’odore del sangue, l’ultimo incompiuto e formidabile di Goffredo Parise pubblicato postumo nel 1997. «Solo chi sente di essere stato preso per mano dalla morte – notava Cesare Garboli nella prefazione – può scrivere un testo così». Vi si racconta di una coppia borghese a Roma, lui, Filippo, medico e psicanalista, e lei, Silvia, una donna molto bella, più spirituale che carnale. Entrambi si sono traditi e poi sempre raccontati tutto; finché Silvia si invaghisce di un giovane romano, fascista – figlio della «città più fascista e ancora fascista d’Italia» scrive Parise – ignorante, nullafacente, che dispone totalmente di lei. Quando la telefonata di un amico comunica al marito che Silvia è stata uccisa, quello non sembra stupito. Sente, piuttosto, di non essere riuscito ad opporsi al destino.

Tarabbia entra in questa storia da un ingresso laterale. Il dottor P*** di cui è paziente è il marito di Silvia ed è sfruttando una sua debolezza che lo scrittore riesce ad entrare in contatto con il ragazzo fascista che Silvia frequentava e con il gruppuscolo – il Continente bianco, appunto – di cui è uno dei componenti. Grazie a questa strategia narrativa, Tarabbia fa parlare coloro che nel romanzo di Parise non hanno voce, quel mondo a cui L’odore del sangue si limita a alludere.

Lo scrittore entra quindi a far parte del gruppo, dove però tutti sanno che egli è al tempo stesso un paziente del marito di Silvia, e uno scrittore: lo ingaggeranno proprio perché racconti le loro gesta. L’io narrante si trova un po’ dentro e un po’ fuori rispetto agli eventi cui partecipa: il luogo ideale della letteratura, perché non si riduca a un gioco estetizzante.

All’odore del male
Anche in Tarabbia il motore di tutto è l’odore del sangue; ma se in Parise esso si limita a indicare i motivi ancestrali del sesso e del desiderio, in Tarabbia è inseparabile dall’odore del male. Muovendosi con sapienza e coraggio dentro a un altro romanzo, Il Continente bianco non è un libro sulla banalità del male, ma semmai sulla ordinarietà del bene, e sul pericolo che esso possa ridursi a una forma, non meno colpevole, di astensione dalla vita.