Andrea Segre, che a Venezia e in laguna è davvero a casa sua, è presente alla Mostra del Cinema con ben due film ed anzi con due «film d’apertura»: usando i termini tradizionali il documentario La Biennale di Venezia: il cinema al tempo del Covid, e il «film» Welcome Venice, ma nel cinema di Segre questa distinzione ha comunque poco senso. Il documentario è stata la preapertura ieri del festival, Welcome Venice invece apre le Giornate degli Autori questa sera, inaugurando la nuova Sala Laguna, cosa che lo rende particolarmente orgoglioso, anche perché la sala è dedicata alla collega e amica Valentina Pedicini ed è uno spazio che rimarrà alla città, non una tensostruttura ma una vecchia sala parrocchiale restaurata. Tra un film e l’altro, e tra Festival e festival (ne organizza uno a Chioggia) Segre si è installato nella tranquilla Pellestrina, ponte naturale tra Chioggia e Venezia, e da lì ci risponde.

Cosa ha voluto dire andare al cinema al tempo del Covid?

L’anno scorso la Biennale mi ha chiesto di documentare un’edizione, forse storica, della Mostra del Cinema: quella organizzata durante una pandemia globale. Ero impegnato in un’altra lavorazione e avevo pochi giorni a disposizione, ma era una bella la sfida e l’ho accettata. Ne è nato un piccolo diario filmato, appunti in presa diretta di un pezzo inatteso della storia della Mostra e del cinema, uomini e donne incontrate alla Mostra, che riflettono su quanto stanno e stiamo vivendo.

Chi hai intervistato?

Spettatori, gente che lavora nel cinema, maschere, giornalisti, non i personaggi famosi. Volevo capire come vivevano la situazione. E poi raccontare questa cosa attraverso immagini di archivio della Mostra del passato.

L’anno scorso hai raccontato la Venezia spettrale del Covid, e prima la Marghera della smobilitazione industriale ma soprattutto la Chioggia del tuo primo film, Io sono Li, presentato proprio dieci anni fa. Quest’anno racconti una Venezia poco conosciuta, la Giudecca. Senza spoilerare la trama del film, diciamo che il tema è nientemeno che il futuro della città lagunare, la difficoltà di trovare la quadra tra un turismo necessario per la sua sopravvivenza economica della città e la sostenibilità della laguna, l’esodo che ha svuotato la città costringendo chi non se la può più permettere a migrare in terraferma. Nel film il conflitto tra i due modelli mette di fronte due fratelli, un pescatore di moeche, e un imprenditore di b&b, che vorrebbe trasformare la casa di famiglia in una residenza per turisti ricchi. Hai documentato come è andare al cinema durante la pandemia, ma come è fare cinema durante il Covid?

Abbiamo cominciato a girare a metà settembre e terminato le riprese il 5 dicembre, quando la pandemia stava riprendendo forza. Mascherine, tamponi ogni tot giorni, e poi a un certo punto mi sono scoperto positivo ma asintomatico. Per non bloccare la produzione abbiamo deciso con Francesco Bonsembiante della Jole Film di continuare le riprese con me in smart-regia, isolato quindi, ma sempre alla regia. Non è stato per niente facile, ma la situazione, ha creato una solidarietà nel gruppo, per cui ognuno ha cercato di dare il meglio.

Come è la collaborazione con Marco Pettenello, co-sceneggiatore del film?

Abbiamo iniziato a scrivere la sceneggiatura nel 2018. Noi lavoriamo insieme, studiamo i luoghi, incontriamo la gente e poi scriviamo e mettiamo a confronto i testi. Avevamo finito la sceneggiatura ma poi è arrivato il Covid e abbiamo deciso di dialogare con la pandemia, interrogandoci sul destino della città.

Le moeche sono una leccornia stagionale. Sono natura, ma sono anche dei mostriciattoli con le loro zampette che si muovono mentre li infarini per friggerli… Per te cosa rappresentano?

Le moeche sono un piatto povero, ma ormai ricercato. Il pescatore di moeche fa un lavoro durissimo, ma non è mitizzato nel film, anche perché ora il frutto del suo lavoro va a finire sulle tavole dei turisti ricchi. Le moeche stesse quindi rappresentano la contraddizione: perché salvare il pescatore di moeche se è un lavoro durissimo e allo stesso tempo offre uno sfizio per i turisti?

Nel film si dice però: «I turisti magari no i torna, le moeche ghe sarà sempre»…

Abbiamo cercato di rompere con gli stereotipi: il pescatore non è una figura mitica sullo sfondo della laguna, ma un lavoro duro che non rappresenta il futuro, quindi perché salvarlo? E l’imprenditore non è un bastardo, però non si può continuare a consumare le nostre bellezze e farne oggetti per il mercato. Sono due fratelli, che si scontrano intorno all’idea di cosa fare della casa. La casa è il centro della storia. Senza la gente comune la città non riprende a vivere. Non c’è nostalgia ma la difficoltà ad accettare che la città sia diventata inaccessibile per chi ci lavora. Bisogna diversificare quell’economia, pensare alle alternative.

Nel comunicato stampa, si parla di una Venezia «che si sente scomparire, che non sa dove andare, ma trova ancora la forza di esistere e di parlare, a sé e al mondo». L’immagine di Venezia, talvolta languida e distante, rimane comunque al centro, con una visione affascinante e diversa dei suoi paesaggi: i notturni, le calli strette, il senso dello spopolamento…Questa volta Matteo Calore ha avuto la direzione della fotografia, e ha fatto delle scelte molto coraggiose, utilizzando lenti anamorfiche per dare fluidità alle immagini della laguna, allo stesso tempo lavorando con la camera a mano.

Con risultati davvero notevoli. Un film così veneziano e fatto da veneti, ma non ho visto il logo della Regione o della Film Commission

Devo ringraziare Francesco Bonsembiante se il film si è fatto con tutte le tensioni, i ritardi, il Covid, lui ha avuto coraggio di andare avanti anche nell’incredibile assenza della Regione Veneto.