All’inizio c’era il desiderio di filmare Venezia, la città della famiglia, dove è nato suo padre che l’aveva filmata quando era ragazzo, a sedici anni con una super 8 prima di trasferirsi a Padova e lasciarla svanire dal proprio orizzonte come lui era scomparso dal suo. Ci aveva girato intorno Andrea Segre a Venezia coi suoi film, Chioggia, Mestre ma mai un confronto diretto: ecco dunque il momento a partire da alcuni punti fermi, il turismo, l’acqua alta, un piano di lavoro già pronto dallo scorso 22 febbraio. Poi però, e molto velocemente, tutto è cambiato a Venezia e nel mondo: il silenzio nelle calli, il Carnevale annullato, qualche maschera ostinata che non aveva rinunciato all’abito, la laguna svuotata dalle barche dei turisti fino al lockdown.
Molecole, film di pre-apertura della Mostra di Venezia, in sala il 3 settembre, comincia da qui. O forse un po’ più indietro, nel vissuto di Segre, nei suoi ricordi di bambino, nella relazione con la figura del padre che da fisico studiava le molecole. E negli incontri, tra gli amici e le storie raccolte di un quotidiano sospeso come è quello di Venezia soffocata tra acqua alta e sfruttamento intensivo della bellezza di cui non riesce a fare a meno. E se da una parte Elena, vogatrice professionista che insegna a vogare ai turisti mentre affonda i remi nell’acqua finalmente ferma perché non sconvolta dalle imbarcazioni che li portano in giro è felice, dall’altra sa che la sua esistenza è legata a filo doppio a questo. Una stortura che poi è quella del nostro tempo nel rapporto col lavoro, l’ambiente, la società. È qui che ci porta Molecole, scoprendo paesaggi intorno al capoluogo di antica bellezza, isolotti corrosi, l’intimità di chi ha voluto allontanarsi ondeggiando come l’acqua su cui si muove tra gli appunti di una prima persona e una dimensione collettiva, quasi che la narrazione personalissima del regista ne sia essa stessa un frammento, una «molecola».

Quando ha preso forma «Molecole»? Che a quanto dici nel film è nato mentre eri lì per lavorare a altri progetti.  

Sono rimasto bloccato a Venezia dal lockdown, ero lì per la preparazione di un film sul turismo che girerò a ottobre, la storia di tre fratelli il cui diverso atteggiamento nei confronti di una eredità famigliare riflette le contraddizioni della città. E stavo lavorando anche a un progetto teatrale, unito al cinema, un’opera sul legame tra Venezia e le acque, Sarei potuto partire ma alla fine ho deciso di fermarmi. Mi sembrava di avere la possibilità di ascoltare Venezia, con cui non mi ero mai confrontato direttamente, forse perché per la prima volta la sua voce non era soffocata. Era deserta, e mentre filmavo senza un filo preciso mi sembrava anche di capire meglio la figura di mio padre, pure lui silenzioso, o con un suo modo di comunicare che per ascoltarlo mi ci è voluto del tempo. Quando sono rientrato a Roma ho iniziato a guardare i materiali, ho intuito e la possibilità del film grazie anche agli archivi, alle immagini girate da mio padre di cui non mi aveva mai parlato. Molecole ci mostra la città cambiare fino al deserto irreale, comune a tante altre città, nei mesi del lockdown. E quello che emerge è un «paradosso» fra il turismo come sistema intensivo e l’economia del luogo, insostenibile ma necessario, di cui tutti sono consapevoli. Non ho mai pensato che Venezia vuota fosse bella, forse perché quel vuoto rispetto a altre città appariva più angosciante, a San Marco non c’è nessuno che va a fare la spesa. La questione però non è stabilire se il turismo è giusto o sbagliato ma creare delle alternative offrendo alla gente la possibilità di stare a Venezia. È un problema strutturale o che investe per prime le rappresentanze istituzionali, il sindaco di Venezia, Brugnaro, è uno che sostiene l’industria turistica senza pensare a altre strade. C’è anche chi si preoccupa di questa monocultura che può rivelarsi un pericolo, come si è visto con la pandemia, ma perché ci sia un rapporto più «light» ci vuole una scelta etica, si deve pensare a una nuova economia, a un turismo «pulito», a una diversa cultura del luogo dopo vent’anni di concentrazioni immobiliari che hanno spinto le famiglie a lasciare Venezia e permesso alle multinazionali con poteri globali di acquistare moltissime case. Sono decisioni precise, politiche, il cui peso è evidente specie oggi, e che hanno reso la bellezza della città anche la sua fragilità. Ma il turismo produce un’economia e poco importa se inquina, su questo c’è un totale laissez-faire, se alle persone non dai altre possibilità c’è poco da fare. E non parliamo dei grandi proprietari ma dei lavoratori stagionali, di tutti coloro che vi ruotano intorno, che sono quelli in pericolo.

Insieme alla città il racconto segue le tracce di tuo padre, della tua relazione con lui.

Papà è il centro drammaturgico del film, ma probabilmente non sarei mai riuscito a parlare del mio rapporto con lui se non ci fosse stato quel momento eccezionale. Per me è un po’ come un di svelamento intimo e personale che si riflette in questo momento storico, nella sua incertezza.

Da qualche anno organizzi Laguna sud, un festival a Chioggia, in collaborazione con le Giornate degli autori, quest’anno è stato anche una residenza artistica per giovani filmmaker che hanno girato sul posto.

Credo che tutto il territorio sia molto interessante, Chioggia, Palestrina esprimono un rapporto tra uomo e natura intenso, sono luoghi unici dal punto di vista antropologico, della fauna, della biologia, delle storie anche se l’attenzione di concentra sempre quasi soltanto su Venezia. Il festival cerca di dire anche questo, costruendo una presenza sul territorio che non è solo di vetrina ma di collaborazione e di formazione

Era importante per te fare la Mostra quest’anno?

Assolutamente, e sono felicissimo che ci si è riusciti, il cinema torna finalmente nelle sale, dove deve esistere e essere visto, se non ci fosse stata avremmo avuto un vuoto cosmico.