«Non c’è al mondo, credo, un mestiere più legato alla depressione di quello dello scrittore. La depressione è, semplificando all’estremo, la fatica di essere se stessi. Ecco come avrei potuto rispondere alla domanda di Grazia su David Forster Wallace: “Perché si è ammazzato?” “Per la paura di scrivere”». Vale la pena di partire da queste frasi per parlare del memoir di Andrea Pomella L’uomo che trema (Einaudi «Supercoralli», pp. 208, euro 18,50), che affronta il ‘male oscuro’ proprio attraverso la scrittura. Il riferimento al titolo del libro di Giuseppe Berto non è generico; la riflessione letta sopra si trova infatti nel capitolo centrale del libro (Un giro alla Balduina), in cui il narratore si mette sulle tracce proprio di Berto, e per quel tramite evoca anche altre grandi figure, da Musil a Gadda, fino appunto a Wallace. Non sono semplici omaggi, né appunti per una storia letteraria della depressione; si tratta piuttosto di esercizi di rispecchiamento, necessari per guardare il male da fuori, come tema o come oggetto. In questo senso L’uomo che trema mette in relazione depressione e scrittura, facendo della seconda se non una terapia contro la prima, almeno uno strumento per rappresentare sé stessi e fare i conti con la fatica, con la paura. In questa rappresentazione, Pomella si affida a una parola piena, a un racconto non evasivo. La narrazione, cioè, non trova nella reticenza un elemento strutturale, come accadeva invece nel grande precedente sveviano; La coscienza di Zeno resta in effetti un modello implicito, da riconoscere forse nel titolo del primo capitolo: Storia della mia depressione, accostabile, nel romanzo di Svevo, a La storia del mio matrimonio o alla Storia di un’associazione commerciale. Ma anche Giuseppe Berto è un modello più tematico-esistenziale che non stilistico-formale; nell’Uomo che trema, infatti, non c’è traccia della scrittura associativa e della sintassi abnorme che caratterizza Il male oscuro.
È un limite la bassa temperatura stilistica del romanzo? Lo è, in confronto ai capolavori ad altissimo tasso di elaborazione formale con cui Pomella dialoga; non lo è invece se leggiamo nell’Uomo che trema non la sfida o la mimesi del male attraverso un linguaggio turbato, ma il tentativo di eludere i ‘miti’ che l’io costruisce intorno a sé stesso. L’odio per il padre assente è uno di questi miti o costruzioni (su cui non per niente sono imperniati i romanzi di Svevo e di Berto), che il protagonista forse non risolve, ma che cerca di addomesticare. Anche lo stile – cioè, la sua oltranza – può essere un mito di quel genere, adottato nella modernità letteraria come un grande esorcismo conoscitivo nei confronti della realtà che si vede. Il memoir di Pomella non discende da quell’idea di relazione tra mondo e scrittura; il narratore ha un legame culturale, non naturale, con la genealogia in cui s’identifica. Tra realtà e destino il personaggio vuole che ci sia coincidenza, ma non è la prima che deve adempiere una promessa fatale; è il destino che deve assecondare la realtà. È eloquente un brano del terzo capitolo, L’abbandonante e l’abbandonato, in cui la madre del protagonista riceve da una cartomante una profezia sul futuro del figlio: «Un avvenire indubitabilmente felice: una sposa, la realizzazione di tutti i miei propositi, soldi soldi soldi». Questa previsione, quasi una parodia del destino di un eroe da romanzo di formazione, genera una tensione insoddisfatta («ogni volta che ho avuto una delusione, la profezia è sempre tornata, è tornata a dispetto del mio scetticismo, del mio cinismo, del mio pragmatismo»), un disallineamento che è proprio ciò a cui la scrittura, se non è vissuta a sua volta come frustrazione e inciampo, può alla fine rimediare.
È sotto questa luce che occorre leggere il libro di Pomella, per capire le ragioni di un racconto che vuole concludere, forse con troppa intenzione. Ma il fatto è che il protagonista, diversamente da Zeno e da altri suoi antenati novecenteschi e ‘parenti’ stranieri, vuole guarire, o vuole credere di poterci riuscire: «Sono di nuovo nel mondo. Sono rientrato lentamente, e altrettanto lentamente allungherò il passo , poco alla volta, fino alla completa guarigione».