La pandemia, il lockdown, le rivolte nelle carceri, le cosiddette «scarcerazioni» dei boss mafiosi e perfino le accuse del guru dell’antimafia Nino Di Matteo al ministro Bonafede devono aver prodotto un shock salutare dentro il M5S, se il numero due del Pd, Andrea Orlando, intravede ora qualche possibilità di riproporre la riforma del sistema dell’esecuzione penale messa a punto quando era ministro di Giustizia, e finita in un cassetto come tributo del Pd al populismo penale grillino.

Orlando, nella discussione sulla ripresa post Covid e sull’uso del recovery fund non si sente parlare di giustizia ed esecuzione della pena. Eppure è uno dei nodi chiave, anche per far ripartire l’economia.

Spero proprio che nella riflessione sul post Covid trovi posto anche la società invisibile, quella privata della libertà, per problematiche psichiche o per reclusione in carcere. L’auspicio è che si riprenda il lavoro sulla giustizia che avevo promosso, perché ho la presunzione di pensare che quel metodo andrebbe adottato in molti campi e quel risultato non vada disperso.

È solo un auspicio o vede possibilità concrete?

Credo che oggi ci siano le condizioni adatte per riprendere il filo di quel discorso.

Che cosa è cambiato rispetto a quando quella riforma è stata sacrificata sull’altare del populismo penale grillino?

Intanto ho la pretesa di pensare che qualcosa quel lavoro abbia prodotto: qualche innovazione normativa e regolamentare, ma soprattutto un cambio di approccio nell’esecuzione penale. Ma al di là di questa magra consolazione, la dinamica è quella: la paura dell’aggressione populista. Allora, non tanto da parte di Renzi ma del governo Gentiloni. Di nuovo, oggi, c’è un piccolo «cigno nero» nel racconto populista: la posizione ultra restrittiva del capo del Dap e la rimozione del pericolo Covid ha prodotto un paradosso. Alla fine, dal carcere sono usciti i detenuti più pericolosi, mentre quelli che potevano affrontare un percorso di recupero forse non hanno neppure ottenuto pene alternative. Questo dovrebbe far riflettere: il carcero-centrismo e l’idea ipersecuritaria dell’esecuzione penale, ispirata da pene esemplari e simboliche per tutti, non garantisce sicurezza e produce questi stupidi paradossi. Questa vicenda ha fatto emergere la necessità di una esecuzione della pena personalizzata, come era previsto nella riforma, cioè che tenga conto delle condizioni oggettive e soggettive del detenuto.

Ma sul terreno del garantismo non sarà che forse trovate più alleati in Forza Italia che nel M5S?

Francamente non credo: nel passaggio tra le due legislature (Renzi e Gentiloni, ndr), nelle commissioni provvisorie, Fi avrebbe potuto dare il consenso per rendere definitivo il decreto legislativo di riforma, e invece lavorò in asse con la Lega per bloccarlo. Su questi temi si misura l’autenticità del garantismo: quello nazionale è perlopiù legato al censo e quindi poco interessato al carcere. Il che non significa che non si debba ritentare di nuovo, sperando in posizioni diverse, in un campo e nell’altro. Credo che nel M5S ci siano sensibilità che fin qui non hanno prevalso. Bisogna riaprire la discussione: non sulla certezza della pena ma sugli effetti che essa produce, sulla sua utilità. Perché la pena non sia solo un esorcismo sociale.

A proposito del «cigno nero» nel racconto populista: cosa pensa dei magistrati di sorveglianza che hanno «scarcerato» i detenuti più a rischio di vita, durante la Fase 1, e lo stop impresso dal decreto Bonafede?

Ho letto questa vicenda come un’incapacità di dirigere l’amministrazione penitenziaria. Durante l’epidemia, la magistratura di sorveglianza ha svolto un ruolo di supplenza. Andrebbe ringraziata, perché non è responsabile il giudice che scarcera il boss ma chi non è stato in grado di creare le condizioni perché ciò non avvenisse. Il vero problema è il sovraffollamento. Se non ci fosse stato il Covid saremmo nuovamente in una condizione di rischio condanna della Corte di Strasburgo. Il decreto Bonafede ha invece solo invitato i giudici a riconsiderare le misure alla luce dei provvedimenti assunti nel frattempo. Non altera i rapporti di forza tra poteri dello Stato. La domanda da farsi è perché queste misure non siano state prese prima.

Il sovraffollamento però è rimasto. Non è che adesso salterà fuori un piano di edilizia carceraria da finanziare con il recovery fund?

Mi auguro vivamente di no. La questione oggi è rendere pienamente disponibili le celle attuali, prevedere luoghi dove poter assegnare i domiciliari a chi non ha un domicilio stabile, e immaginare altri luoghi di detenzione attenuata, che non ci sono e sono necessari in un sistema graduale di esecuzione della pena.

In molti, e non i solo i Radicali, credono che l’amnistia e l’indulto siano l’unico modo per uscirne e ricominciare nel solco del rispetto dei diritti umani. Se non è il caso in un’emergenza come questa, quando lo è?

Sono contrario, perché credo che questi provvedimenti indeboliscano la rivendicazione di una riforma organica. Non c’è mai stata una riforma dopo un provvedimento di clemenza. Ora la riforma c’è e prevede l’istituzione di «valvole» intelligenti per il sistema. Non va sprecata.