Neppure adesso che le polemiche sollevate dai gestori delle sale cinematografiche lo hanno portato a decidere di dimettersi da presidente della sezione distributori dell’Anica, Andrea Occhipinti si è pentito minimamente delle sue scelte. Né di aver prodotto con la sua Lucky Red insieme a Cinemaundici Sulla mia pelle, il film di Alessio Cremonini che racconta gli ultimi sette giorni di vita di Stefano Cucchi, e neppure di aver ceduto i diritti a Netflix che lo ha messo in programma contemporaneamente alla distribuzione nelle sale. Una modalità che era già stata sperimentata in Italia con Rimetti a noi i nostri debiti di Antonio Morabito, ma questa volta il successo del film ha messo in evidenza le contraddizioni di una nuova realtà.

Andrea Occhipinti

Occhipinti, perché ha deciso di produrre «Sulla mia pelle»?
Perché questa storia ci riguarda. È un tema caldo, molto attuale, che suscita interesse ed è vissuta sulla propria pelle da una famiglia in carne ed ossa, persone che vivono accanto a noi, che possiamo incontrare per strada ogni giorno. Per noi era fondamentale avere il loro appoggio su questa operazione, ma nello stesso tempo non volevamo santificare Stefano Cucchi. Volevamo un film secco, asciutto, una versione integra che raccontasse le cose come stanno, il più aderente possibile alla realtà. Per noi era importante questo, perché averlo fatto è già una scelta politica. E il regista Alessio Cremonini ci ha rassicurato, perché la sceneggiatura che ha scritto insieme a Lisa Nur Sultan – e che la famiglia Cucchi ha condiviso – è venuta fuori dallo studio attento di 10 mila pagine di verbali.

Un po’ di paura?
Un po’ sì. Certo, avevamo paura soprattutto di non riuscire nel nostro intento di fare un film giusto, non giudicante né partigiano. Perché non ce n’era bisogno, volevamo solo raccontare i fatti.

E i fatti sono, come dice Alessandro Borghi/Stefano Cucchi nel film, che «le scale continuano a menacce».
Sì, naturalmente Stefano Cucchi non è caduto dalle scale. Ma soprattutto volevamo raccontare l’indifferenza, l’abbandono che ha dovuto subire. E tutto questo perché era «un tossico di merda», quindi considerato un cittadino di serie B. Chiunque ha diritto a un giusto processo, nessuno può essere trattato così.

Perché, dopo aver deciso di produrlo, ha accettato di vendere i diritti anche a Netflix?
Siamo una società che sta sul mercato, in contatto con tutti gli operatori del settore. Netflix ci ha chiesto di vedere il film e ne sono rimasti molto impressionati. Non è un film qualsiasi, lo hanno ritenuto adatto e lo hanno comperato per programmarlo in tutto il mondo. Abbiamo chiesto in tutti i modi di rispettare una finestra temporale per non dover limitare l’uscita in sala, ma non hanno accettato.

Per voi è stato un guadagno sicuro.
Certo. In più Netflix ha fatto un investimento importante sulla promozione, e questo è già di per sé un bel risparmio. Ma soprattutto, di solito è molto difficile esportare i film italiani nel mondo, anche se sta cambiando il panorama e attualmente se ne vendono di più. Però rifiutare un’occasione che si presenta così all’improvviso e che mette a disposizione la potenzialità di una platea mondiale, sarebbe stato un delitto. È la prima volta che produciamo un film e poi lo vendiamo a Netflix, a parte alcuni titoli di “library”. Però ci ha fatto piacere che questa decisione sia stata molto apprezzata dalla famiglia Cucchi.

«La tua sofferenza verrà mostrata in 190 Paesi diversi. Non siamo riusciti a salvarti ma te lo avevo promesso che non sarebbe finita lì. Perché non accada mai più», ha detto Ilaria Cucchi rivolgendosi idealmente a suo fratello, in una delle tante proiezioni del film nelle sale. Gli esercenti però non l’hanno presa bene e hanno rinvigorito le tensioni contro Netflix scoppiate al Festival di Venezia, quando David Cronenberg disse: «Tutte queste polemiche sulle trasformazioni che il cinema sta subendo sono solo effetto di una nostalgia, è invece importante guardare avanti». Lei cosa ne pensa: nella realtà del home cinema on demand, le sale hanno vita breve?
Netflix non è il problema principale, in particolare in Italia. Credo che non solo la sala non muore, ma può diventare più attraente di ora. A certe condizioni: che sia un luogo piacevole, tecnologicamente avanzato, un luogo di ritrovo, un’esperienza da condividere. A Roma, per esempio, abbiamo trasformato il Giulio Cesare e l’Eurcine che hanno così raddoppiato gli spettatori. Si noti che negli Stati uniti e nel resto d’Europa la platea di spettatori non cresce come in Cina ma neppure diminuisce come in Italia. Solo da noi c’è un problema di questo tipo, e ha una ragione specifica: la stagionalità. Siamo l’unico Paese dove non escono i film d’estate.

Ma non ci sono anche problematiche insite nel sistema? Per esempio: la penalizzazione delle piccole distribuzioni o delle sale che non aderiscono al «Circuito Cinema» (di cui lei è amministratore delegato), o il problema delle versioni originali rifiutate a priori….
Il tema è molto complesso, ma in Italia non c’è un problema di accesso al prodotto, al di là di alcuni singoli casi specifici. Sento spesso piccoli operatori lamentarsi ma in realtà, sintetizzando, tutto si riduce ad un fatto di appetibilità del film. Il mercato della sala è selettivo, è estremamente difficile, non c’è spazio per tutti. Ecco perché una piattaforma come Netflix può essere invece un’occasione per quei film che non reggono molto nelle sale.

Non è il caso di «Sulla mia pelle». Eppure gli esercenti non hanno risposto con entusiasmo, perché?
Il film è ora in 60 sale di tutta Italia, e ha avuto un picco massimo di 91 sale in contemporanea. Ha incassato fino ad oggi 327 mila euro, con 51 mila spettatori. La migliore media per copia. Perciò chi lo ha programmato è ora strafelice. Ma chi non lo ha fatto – la maggior parte – ha preso una posizione politica contro l’uscita simultanea su Netflix, nella convinzione che il pubblico preferisca, se può, stare a casa piuttosto che andare al cinema. Sulla mia pelle ha dimostrato che non è così: nonostante Netflix e nonostante le proiezioni pirata, il film ha bruciato tutte le tappe. La sera in cui è stato proiettato gratuitamente all’università La Sapienza, con più di due mila spettatori, nei sei cinema di Roma abbiamo avuto il miglior incasso della città.

Però, esattamente allo stesso modo, si può dire che le proiezioni pirata non vi arrecano alcun danno, anzi forse amplificano l’attenzione attorno al film. Non si tratta infatti di vere e proprie proiezioni – si perde molto del film e si rimane con la voglia di tornare a vederlo – ma piuttosto di un rito collettivo. Perché dunque vi siete opposti, anche a colpi di diffida, a questo tipo di iniziative?
È molto importante che ci sia interesse attorno ad un film come questo, ma non credo che la fruizione debba perciò essere libera e gratuita. Se noi abbiamo potuto produrre questo film su Stefano Cucchi, e se è importante averlo fatto, è perché noi siamo un’impresa che produce film che hanno una remunerazione. Quelle proiezioni hanno prodotto un danno e continuano a farlo: molte sale infatti hanno deciso all’ultimo minuto di non montare più il film perché nelle vicinanze era in programma una di queste iniziative. I cinema chiudono anche perché c’è la pirateria.