Le immagini della ventenne Maria Spelterini che, alla fine dell’Ottocento, percorreva su un cavo il cielo sopra la gola del Niagara hanno fatto la storia. Come quelle, ad altre latitudini, di Charles Blondin o del più noto e recente Philippe Petit. Funamboli collocabili in una tradizione circense si misuravano, come altri, con la gravità e l’attrito dell’aria. Una scelta che per Andrea Loreni si è da subito congiunta alla meditazione zen e che dal 2006, anno in cui ha cominciato a prendere confidenza con i nodi e le funi, lo ha portato a essere il primo e unico funambolo italiano ad attraversare grandi altezze. «Le due strade hanno molto in comune, entrambe prevedono una postura dinanzi al vuoto», dice Loreni che oggi ne parlerà nell’ambito di Torino Spiritualità (dalle 10.30 al Circolo dei lettori). «Con la pratica sul cavo ho capito meglio lo zen, soprattutto nel superamento del dualismo molto mentale per cui ci siamo noi e il vuoto; in realtà noi siamo il vuoto, questo ho sentito e vissuto».

Una laurea in filosofia teoretica e poi le tecniche di circo contemporaneo al Circus Space di Londra e alla scuola FLIC di Torino. Cosa cercava in quegli anni e quale il guadagno nella sua pratica oggi?
Attraverso la filosofia immaginavo di poter arrivare alla conoscenza della verità, con il teatro di strada questa verità è diventata meno speculativa, in una elaborazione successiva ho inteso fosse una verità che abitava nel corpo e che non si affermava nel contrario di qualcos’altro. Non aveva una controparte di falsità, era però vissuta. Se la ricerca filosofica mi ha permesso l’approccio a un pensiero altro, l’esercizio del teatro di strada mi ha catapultato nella esistenza di un pubblico, anzitutto.
È un modo di vivere ulteriore che determina libertà, sia in chi lo agisce sia in chi osserva. In questa dinamica in cui stai in cerchio e stabilisci dei ruoli si accorciano le distanze sociali. Il pubblico che ti osserva e con cui ti relazioni ma che non paga un biglietto per guardarti, decide di lasciare qualcosa dopo averti visto. È allora una libertà che ha a che vedere con la responsabilità. Dalla signora anziana al bambino, queste persone di cui non sai niente possono essere una interferenza o una grande occasione di relazione e confidenza. Ho imparato molto, soprattutto nel lavorare con quel che c’è, con ciò che è presente. Anche questo aspetto l’ho portato poi nelle successive traversate.

Ha cominciato con un cavo di canapa, poi con quello di acciaio che definisce «più nervoso». Nel suo lavoro sembra una perturbazione con cui entra in contatto, non si isola ma avverte tutto?
Accolgo tutto quello che c’è. La canapa è più morbida mentre l’acciaio ha una consistenza e una reazione differenti. Con tutta la materialità del mio corpo, se lasciassi spazio alle mie preoccupazioni non potrei trasformare il mio turbamento. Lo accolgo nel qui e ora, anche perché se tagliassi fuori delle cose e pretendessi il silenzio nelle traversate non potrei procedere.
Il rumore del mondo esiste, da una foglia che si muove a un’ambulanza che passa improvvisamente fino al pubblico che osserva ciò che faccio. È un’apertura sensoriale che cerco di non concettualizzare, l’elaborato mentale non mi serve, il corpo allenato sì.

Andrea Loreni durante una meditazione zen in Giappone

Dai colli di Penna e Billi al fiume Adda, poi ancora Rocca Sbaura, il Tevere fino alle traversate internazionali. Dopo anni in cui ha sorvolato il territorio italiano, finalmente ha sperimentato le grandi altezze. Significativa è stata la sua esperienza in Giappone nel 2017. Come è nata questa opportunità?
Tre anni prima mi trovavo al Tempio Sogen-ji, a Okayama, perché è lì che ho approfondito la meditazione zen, sotto la guida di Shodo Harada Roshi. La badessa del Tempio aveva appreso del mio funambolismo e mi ha proposto la traversata. È stata una congiuntura simbolica e materiale delle due strade. È stato molto emozionante, nasce così il documentario Any step is a place to practice (diretto da avantpost, ndr), un detto zen che ci riguarda tutti: ogni passo è un luogo da praticare. Lo custodisco gelosamente calligrafato dal mio maestro.

Nel funambolismo è invece autodidatta. È stata una scelta intimamente trasformativa.
Si tratta di un percorso esistenziale in cui cerco di portare a terra ciò che imparo sul cavo. La trasformazione è stata l’accettazione profonda di ciò che sono e insieme l’occasione di incontrare ciò che potrò essere. Non è l’unica via espressiva per me, tuttavia l’apprendistato alla caduta, all’inizio sono cascato molte volte, è stata la presa d’atto del limite e al contempo del suo superamento.

Dopo «Zen e funambolismo» (Funambolo edizioni, 2019) ora per Mondadori è uscito «Breve corso di funambolismo per chi cammina col vento. Sette passi per attraversare la vita», due libri narrativi e di metodo. In quest’ultimo scrive che quando è salito sul cavo per la prima volta cercava la libertà, in quel momento forse più una sorta di liberazione dalla paura di morire. È trascorso del tempo e non è riuscito a scacciarla ma a farci pace. In che modo?
C’è solo il presente e devi concentrarti sul gesto, il cavo richiede tu sia lì nel passo, non puoi guardarti indietro, c’è una necessità di sopravvivere stando calati nel presente. Questo è uno dei punti dello zen ma l’ho sperimentato nella costrizione sul cavo. Altro punto centrale è la respirazione, lenta profonda e circolare che è molto funzionale quando si sta sospesi in aria, il presente che si affronta sul cavo è critico e ha bisogno di tutta la concentrazione possibile. La condizione fisica della paura è esattamente il contrario, distrae irrigidisce e immobilizza, è una sensazione pericolosa se ci sovrasta. La paura è stata, ed è ancora oggi, quella di cadere.
In senso ampio si declina nel quotidiano nella resistenza che abbiamo ai cambiamenti, un sentire trasversale all’umanità. C’è la morte che è definitiva e poi tante piccole morti intermedie che si manifestano nello scorrere e mutare degli eventi, esterni e interni. Ho poi compreso che se non avessi permesso alla paura di essermi compagna di cammino, anche a molti metri dal suolo, non avrei potuto continuare il percorso. Del resto ancor prima di fronteggiarne l’oggetto, nel mio caso la caduta, siamo avvezzi a evitarne il sentimento, lo rifuggiamo. Accettare invece la paura, il rischio al cambiamento come componente della condizione terrestre, me l’ha resa meno scomoda.

Il tema di «Torino spiritualità» è il respiro, termine presente in molte tradizioni come principio vitale, prossimo al soffio ma anche sollievo dalla fatica. Al Circolo dei lettori parlerà in particolare di «Hara» che, nella cultura giapponese, è centro spirituale e di connessione energetica che radica ed equilibra.
Mentre si è sul cavo non avrebbe senso forzare il ritmo del respiro, a Torino parlerò di quel respiro basso che si radica e attinge dallo Hara, permette stabilità e all’opposto di potersi perdere. Cioè sei abbastanza solido da non spaventarti davanti alla disgregazione. Questa è una eredità dello zen, un respiro rotondo, circolare che ha un ritmo anche nelle camminate, respirando in armonia insieme al cavo, non accorciando il fiato e invece attingendo a ogni nostra risorsa.
Il cavo di Torino spiritualità, basso, avrà una criticità molto controllata e rappresenterà una situazione di rischio altrettanto lieve perché cadere non significherà farsi del male o mettere a repentaglio se stessi. Il radicamento e la salita verso il cielo grazie allo Hara serviranno per considerare la condizione che si presenterà, vedremo quanto cruciale sia avere un corpo vigile e morbido, sia in alto che a terra.