«Dai dati Istat sulla forza lavoro emerge che il mercato del lavoro italiano è in forte stagnazione e gli sperati effetti del Jobs Act non si sono fatti sentire – afferma l’economista Andrea Fumagalli, docente all’università di Pavia e membro dell’associazione del Basic Income Network per il reddito di base in Italia – Una volta terminata la droga degli incentivi la crescita occupazionale si è interrotta e quella che c’è stata è trainata dai contratti precari. Il contratto a tutele crescenti, anche se viene considerato un contratto a tempo indeterminato nelle statistiche, in realtà è un contratto a tempo o un contratto di apprendistato lungo tre anni. Già adesso si inizia a vedere che molti lavoratori assunti con questo contratto sono licenziati a un costo irrisorio per le imprese ed è probabile che a tre anni dall’introduzione del Jobs Act il numero di coloro che saranno assunti stabilmente sarà relativamente basso. Ciò dipende dalle politiche assistenziali all’impresa deliberate dal governo Renzi non hanno avuto effetti sul livello della domanda e dei consumi interni e ha favorito la stagnazione del Pil e una riduzione del potere di acquisto, oltre che il rischio di una deflazione strutturale».

Perché cresce la disoccupazione giovanile?
C’è un effetto demografico dovuto non tanto all’aumento della componente giovanile che è in calo, ma all’aumento della fascia dei lavoratori con più di 50 anni, uno degli effetti dell’onda lunga del boom demografico degli anni Sessanta. Fenomeno accentuato anche dalla riforma Fornero che ha aumentato l’età pensionabile in modo drastico. Questa situazione fa da tappo a un potenziale aumento dell’occupazione giovanile. Aumenta lo scollamento tra una forza lavoro giovanile mediamente più istruita rispetto alla domanda di lavoro che ancora ricerca competenze basse. Questo dipende dalla struttura produttiva italiana votata a produzione tradizionali a basso valore aggiunto e meno innovative.

Il programma «garanzia giovani» ha funzionato?
Grazie anche a un cospicuo finanziamento europeo doveva favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. I risultati sono stati di gran lunga inferiori all’obiettivo dichiarato dal ministro Poletti di inserire nel mercato del lavoro quasi un milione di giovani. Quelli inseriti vivono condizioni contrattuali precarie ad alta ricattabilità o forme di lavoro non pagato.

Perché il mercato del lavoro italiano si conferma sempre tra i peggiori in Europa?
In Italia, più che altrove, il perseguimento ottuso di politiche di sostegno all’offerta produttiva si è coniugato con politiche salariali inadeguate. Non esiste un salario minimo, né un sostegno al reddito minimo. E sono continuate le politiche di riduzione della spesa pubblica sociale in un contesto economico dove la produttività del lavoro cresce a ritmi insufficienti proprio a causa dell’eccesso di precarietà.

È possibile un’inversione di tendenza?
Con le elezioni politiche a breve è difficile che possa esserci. Sul medio-lungo periodo potrebbe essere possibile solo se cambiasse la prospettiva culturale e politica, anche all’interno delle forze di sinistra e sindacali.

In che modo?
Che non si facciano schiacciare da una retorica di tipo lavoristico e che riescano invece a elaborare politiche aperte e innovative di sostegno al reddito in grado di creare le premesse per una valorizzazione delle competenze e delle capacità lavorative che già esistono.

Sarà mai possibile?
Al momento attuale non se ne vedono le premesse. A livello europeo qualcosa si muove in Francia dove Benoît Hamon ha vinto le primarie socialiste su questo programma. Bisogna passare da una logica puramente difensiva a una propositiva e adeguata ai nuovi processi di accumulazione e di valorizzazione capitalistica.