Andrea Fumagalli, docente di economia all’università di Pavia, secondo l’indagine su occupazione e sviluppi sociali 2017 della Commissione Europea l’occupazione nel continente non è mai stata così alta dall’inizio della crisi. A cosa è dovuta questa crescita?
All’aumento dell’età pensionabile, del lavoro degli over 50, del part-time involontario e della precarietà. Il dato complessivo di 234 milioni di persone al lavoro va analizzato in dettaglio. Se guardiamo i dati relativi alle unità di lavoro equivalenti, ovvero la quantità di lavoro richiesta dalle imprese, questa cresce a un saggio inferiore rispetto alla crescita degli addetti. Il che significa che la quantità di lavoro resta ancora stagnante, ma aumenta la quota dei precari a scapito dei posti fissi si ha un aumento delle persone occupate ma con un livello reddituale peggiorato. In pratica il lavoro stabile viene sostituito dal lavoro precario.

Mentre in Europa la quota dei Neet diminuisce, in Italia continuano a crescere. Come si spiega questa differenza?
In Italia il numero dei Neet è sempre stato del 60-70 per cento superiore alla media Ue, intorno a un livello del 20% rispetto alla forza lavoro complessiva. La media europea è dell’11%. In Italia la quota dei cosiddetti scoraggiati, cioè coloro che non fanno nessuna ricerca di lavoro nel periodo della rilevazione, e quindi non vengono contabilizzati nei disoccupati veri e propri, è di gran lunga superiore alla media europea. Teniamo presente che gli scoraggiati sono sopratutto giovani che hanno bisogno di lavorare perché hanno bisogno di reddito. Non sono quindi disoccupati volontari, ma non rientrano nemmeno tra i disoccupati. I Neet sono il bacino degli scoraggiati, oltre che del lavoro nero e grigio. Una recente ricerca del progetto europeo «Pie news-commonsfare.net» ha evidenziato che i giovani precari sotto i 25-26 anni non cercano effettivamente lavoro. Sono quelli che possiamo chiamare precari di seconda generazione che vivono di «lavoretti» nella «gig economy». Non vedono più nel lavoro la principale forma di realizzazione. Il loro è un rifiuto individuale del lavoro che non assume una dimensione collettiva.

Nel nostro paese si registra anche un aumento record del lavoro autonomo. Per tradizione, siamo sempre stati un paese con tante partite Iva. Oggi la partita iva è un modo per sfuggire alla precarietà o di essere diversamente precari?
In Italia la quota di lavoratori non subordinati, detti autonomi, è pari al 23%. Buona parte è composta da partita Iva, in parte sono lavoratori individuali per conto terzi che svolgono prevalentemente un lavoro eterodiretto che spesso è l’unica possibilità immediata per avere un minimo di reddito intermittente. Quest’ultima è una forma di precarietà che ha una storia strutturale nel nostro paese.

Cosa dire ai giovani che non avranno una pensione degna?
Le riforme pensionistiche in Italia con il passaggio al sistema contributivo hanno risolto il problema della sostenibilità economica della spesa previdenziale, ma hanno innescato una bomba sociale. In presenza di elevata precarietà lavorativa, i contributi versati non permetteranno a molti di godere di un livello di pensione superiore alla povertà relativa. Saranno costretti a lavorare finché moriranno, oppure a sperare di morire prima di andare in pensione. Questo obbligherà, a partire dal 2030, quando il sistema contributivo andrà a regime, a un intervento di sostegno al reddito per coloro che si troveranno in una situazione di povertà.

Come si spiega il boom della povertà nel nostro paese, unico caso in Europa con Romania e Estonia?
La povertà non riguarda più solo coloro che sono fuori dal mercato del lavoro: i disoccupati e i pensionati con basso reddito. Riguarda sempre più anche coloro che sono all’interno del mercato del lavoro. Questa è la quota di poveri che aumenta di più. Per l’Istat il dato preoccupante è quello degli «operai e assimilati» che hanno un rapporto di lavoro continuato. L’incidenza della povertà sfiora il 20%, uno su cinque, contro il 33% dei disoccupati. Ciò vuol dire che il lieve incremento occupazionale in corso si coniuga con l’ampliamento della «trappola della precarietà» i cui effetti sulla dinamica della domanda e della polarizzazione dei redditi sono ormai evidenti.

Basterà il reddito di inclusione contro la povertà voluto dal governo?
Assolutamente no. Il reddito di inclusione, finanziato con 700 milioni che saliranno a 1 miliardo e 400 nel 2018 è sottoposto a tali vincoli di accesso da far sì che solo meno del 20 per cento delle famiglie in povertà assoluta potranno goderne.

Il governo promette di aumentare i fondi…
È difficile che tale promessa possa essere mantenuta nei vincoli di bilancio se il governo decide in modo prioritario di spendere quasi 10 miliardi di euro per vari salvataggi bancari. Bankitalia stima che tale decisione farà aumentare dell’1 per cento il rapporto debito/Pil.

La commissaria Ue all’occupazione Thyssen sostiene che l’Europa è per il reddito minimo, ma lascia ai singoli paesi la possibilità di adottare il reddito di cittadinanza. Qual è la soluzione migliore?
La discussione sulla scelta tra reddito minimo e di cittadinanza è malposta. Il vero discrimine non è l’universalità ma l’incondizionalità: un reddito dato senza nessuna contropartita. Sarebbe più utile erogare un reddito di base pari alla soglia di povertà relativa di 780 euro al mese partendo da coloro che si trovano al di sotto di questa soglia a livello individuale con un esborso di 15 miliardi netti annui più i 9 miliardi già stanziati per gli ammortizzatori sociali. Con l’accortezza di specificare che tale reddito dev’essere il più incondizionato possibile.

In Italia non c’è né l’uno, né l’altro…
Nel nostro paese qualsiasi proposta di legge sul reddito minimo, o di base, dev’essere accompagnata da una proposta di salario minimo orario per i non contrattualizzati. Per evitare il rischio di un effetto sostituzione tra il salario e il reddito.

Stefano Rodotà e Luigi Ferrajoli sostengono che le ragioni del reddito e del salario minimo sono affermate negli articoli 36 e 38 della Costituzione e non contraddicono l’articolo 1 sulla “repubblica fondata sul lavoro”. Ritiene che questa impostazione permetta di superare la contrapposizione tra reddito e lavoro?
La trovo corretta. Nell’attuale contesto capitalistico, che non è quello del secondo Dopoguerra, il lavoro remunerato andrà a diminuire con l’automazione tecnologica, soprattutto nel comparto dei servizi. Il lavoro va considerato come un esercizio di libertà e auto-determinazione. Conta più il diritto alla scelta del lavoro che il diritto al lavoro qualunque sia. Il reddito di base e senza condizioni è la premessa di questa libertà.