Si parla spesso di fumetto d’autore e Andrea Ferraris vanta in questo senso, una traiettoria singolare: dopo aver lavorato per molti anni disegnando per Disney, la spinta a sperimentare e percorre strade indipendenti lo ha portato al romanzo. Ha firmato lavori notevoli di stampo storico come Churubusco e La lingua del diavolo e un reportage narrativo La Cicatrice dal Muro, al confine tra Messico e Stati Uniti. Il suo nuovo libro, uscito con Einaudi è sì un fumetto di realtà ma con un determinante approccio soggettivo visto che racconta la storia di Sarvari, la bambina indiana che lui e la sua compagna Daniela hanno adottato. Ne abbiamo parlato con lui.

Vieni dall’obiettività del racconto storico e del reportage: com’è stato scrivere una storia, questa storia, in prima persona?
Ho impiegato un po’ di tempo a trovare il registro con cui raccontarla. Non ero mai soddisfatto del risultato. A un certo punto mi sono buttato e ho provato ad utilizzare il mio punto di vista, gettando uno sguardo ironico sugli anni che hanno preceduto la scelta di adottare. Mi sono trovato a mio agio, anche perché in questo modo ho scoperto che potevo trattare con maggiore leggerezza argomenti spinosi che mi preoccupava mettere in scena, come per esempio il problema dell’infertilità e quello del lungo percorso burocratico.
Ne è venuto fuori un contrasto interessante che mi piace molto. Solo più tardi, leggendomi, mi sono accorto che quel momento della mia vita rappresenta la mia vera «linea d’ombra», il mio passaggio ad una vita con responsabilità differenti.

Nel tuo racconto ci sono frequenti espedienti grafici metaforici: sono pensati per rendere sostenibili emozioni come l’attesa, l’aspettativa e tutte quelle scatenate dall’incontro imminente? C’è uno spunto esemplare o didattico per i bambini e genitori adottivi che ti leggeranno?
Ho cercato di giocare con gli elementi che avevo a disposizione; l’uso delle metafore è servito per snellire la pesantezza della parte legata alla burocrazia, ad evitare i cliché legati alle tematiche dell’adozione e del rapporto tra me e Daniela. Non c’è nelle mie intenzioni nessun tentativo didattico. Ho solo raccontato una storia. La nostra storia.

Oltre a te, Daniela e Sarvari, c’è un personaggio fondamentale che rientra nelle metafore menzionate: il tigrotto Billi, un oggetto transizionale che accompagna la separazione fisica della bambina dall’India. È un vero e proprio ponte tra la vostra realtà e quella di Sarvari, senza il quale sarebbe stato molto più difficile l’incontro e forse anche il racconto?
Ci eravamo immaginati una bambina di 4 anni e mezzo abituata ad un certo tipo di stimolazioni e quindi avevamo portato con noi anche fogli e pennarelli, pensando che sarebbero serviti per giocare con lei. Sarvari però non li conosceva, non provava interesse nei loro confronti. Il tigrotto Billi, al contrario, ha funzionato dal primo momento: ci ha permesso un contatto con lei, in un momento in cui ogni comunicazione era difficilissima. Non era più un pupazzo di stoffa ma il protagonista di quelle giornate.
Naturalmente, vista la piega che stavo dando al racconto, l’ho messo sotto contratto, facendolo diventare uno degli attori della storia. È ancora in casa da noi, ogni tanto lo incontro.

A livello grafico, sembra che tu abbia usato elementi dell’iconografica indiana e indù per narrare la compenetrazione tra i due mondi. Quali sono stati riscattati dai tuoi ricordi per potenza evocativa e messi al servizio del racconto?
È impossibile non rimanere affascinati dal gusto della decorazione e del colore indiano. Mi sono lasciato trasportare ma ho utilizzato l’iconografia molto liberamente tenendo ben presente il taglio ironico anche da un punto di vista grafico.
Il telefono che simboleggia la lunga attesa è diventato un altarino iperdecorato nello stile delle loro divinità, il Karma che ho rappresentato, non rispecchia la tradizione, ma diventa elemento fantastico.

Per i lettori dell’Andrea Ferraris romanziere, quest’esplosione di colore è insolita, ma forse inevitabile, essendo la storia ambientata per buona parte in India. Come hai lavorato sulle scelte cromatiche?
È un libro differente dai miei precedenti, un racconto famigliare. Gli acquerelli sono di mia moglie Daniela con la quale c’è, alla base, una scelta condivisa. Dividere il racconto in tre momenti cromatici. Un unico colore per tutta la prima parte, quella di cui sono protagonista scanzonato, la stessa in cui si materializza la decisione di adottare.
Una seconda fase che inizia quando ci viene comunicato che il paese in cui adotteremo è l’India. Non essendoci mai stati, abbiamo cominciato a leggere libri, guardare foto, immagini, film. Naturalmente ci è stato subito chiaro che ci stavamo formando solo un’idea minima di quel paese molto complesso ed abbiamo deciso di rappresentare questa’idea semplificata, attraverso i tre colori della bandiera indiana, il bianco, l’arancione e il verde.
Solo dopo l’atterraggio a Mumbai, come se la realtà entrasse finalmente nella storia, eccoci immersi in un caleidoscopio di colori.

Parole e immagini: per Sarvari imparare la lingua e disegnare sé stessa con la pelle scura sono i segnali di un processo di integrazione compiuto. Lo trovo bellissimo, soprattutto in un racconto a fumetti…
Con Sarvari abbiamo usato il disegno per colmare i vuoti dei suoi primi anni di vita di cui non avevamo notizie, nessuna immagine.
Per lei era importantissimo riuscire a ricostruire, anche se in modo creativo, quel periodo della sua vita. Un diario che riempiva dei vuoti. Tra i suoi disegni sono comparsi la madre indiana, i suoi fratelli o più banalmente, il disegno della sua prima torta di compleanno con una candelina: «Le ho disegnate, quindi sono esistite.»

Le difficoltà del primo momento, la tristezza di Sarvari, la vostra frustrazione: l’adozione in sé crea traumi che credo si risolvano solo con molto amore e molto tempo. Questo libro che esce a molti anni di distanza da ciò che racconta ha in qualche modo aiutato a chiudere un cerchio?
Dal momento in cui l’abbiamo incontrata a Mumbai a quando ho cominciato a scrivere le prime pagine sono passati quasi 13 anni. Abbiamo aspettato che Sarvari fosse in grado di interagire con noi per raccontare questa storia. È stata il primo editor del libro, le leggevo i capitoli e ne discutevamo insieme e quando un disegno non la convinceva interveniva senza farsi scrupoli. Il libro si chiude pochi mesi dopo il nostro ritorno a Genova, quando è chiaro che si che si è creato un attaccamento nei nostri confronti. Quel momento, che ho raccontato in chiusura al libro, è arrivato per me e Daniela in modo inaspettato e per certi versi realizzarlo è stata una sorpresa anche per Sarvari che non conosceva alcuni momenti della nostra vita precedenti al suo arrivo. Si è divertita quando mi ha visto, nella prima parte del racconto, gironzolare spensierato per la città. Credo che questo l’abbia ulteriormente avvicinata, ora che, ventenne, si ritrova a vivere le stesse situazioni, ora che sembra pronta ad un altro salto della sua vita che la porterà a staccarsi da noi, a diventare indipendente. In questo senso credo che il libro ci abbia aiutato a fare il punto, a chiudere il cerchio.