André S. Labarthe – morto a Parigi lunedì a 86 anni – era entrato nel gruppo dei Cahiers du cinéma negli anni cinquanta, quando la rivista era ancora gialla e quando l’altro André, Bazin, era ancora vivo. Era il periodo in cui la critica si distaccava definitivamente sia dal giornalismo che dalla storia del cinema, fabbricandosi una posizione scomoda e incerta, sempre da reinventare, sempre a rischio di cadere dal lato della cronaca o da quello accademia. A quest’etica critica Labarthe è stato sempre fedele. Non gli interessavano i film ma il cinema, il suo movimento, la sua presenza. Non gli interessava scrivere una storia dell’arte cinematografica e, in maniera provocatoria, diceva che il cinema non è arte. Ma cos’è allora ? Secondo Jean Douchet è durante un festival di Venezia all’inizio degli anni sessanta che Labarthe e Janine Bazin hanno l’idea di una serie di film sui cineasti.

All’origine c’è la volonta di trasporre in forma cinematografica le lunghe interviste che sono una, forse la principale, invenzione dei Cahiers. A quest’idea, Labarthe ne aggiunse un’altra: che fossero dei registi a fare il ritratto di altri registi. Da cui il nome: Cinéastes de notre temps. Il primo episodio, del 1964, è il più famoso: Jean Renoir intervistato da Jacques Rivette. Vent’anni dopo sarà Rivette a rispondere alle domande di Serge Daney, in un altro episodio leggendario (firmato da Claire Denis). In tutto la serie conta più di cento ritratti. Alle volte Labarthe figura come autore o regista. Spesso solo come produttore. Gli episodi girati da lui portano un gusto, tutto rivettiano, per il complotto. Labarthe era un cineasta della sorpresa e dell’imprevisto.

Raramente si dava il ruolo dell’intervistatore. Gli piaceva piuttosto mettersi in disparte e osservare l’azione cercando ogni tanto di disturbarla o di cambiarne il corso. Come nell’episodio girato in Sicilia sul set di Palombella rossa, dove Labarthe «spia» con la macchina da presa il critico Giovanni Buttafava alle prese con Nanni Moretti. Uno degli episodi più riusciti ed esemplari della serie è anche il più eccentrico: L’Homme qui a vu l’homme qui a vu l’ours, che doveva essere un film su e con Orson Welles ma, non potendo contare sull’accordo di quest’ultimo (probabilmente per una questione di soldi), venne trasformato da Labarthe in una sorta di strano poliziesco, tutto improvvisato a Los Angeles sulla base di un vago canovaccio e grazie alla complicità d’un eccezionale Laszlo Szabo. Il cinema, si sa, è un misto di controllo (mise en scène) e di ascolto (registrazione). Per Labarthe il controllo non aveva senso se non nella misura in cui serve a far apparire (e a registrare) qualcosa che non è prevedibile.

Ogni critico del cinema è ossessionato da un’immagine. Non la conosce completamente. Essa gli sfugge, è sempre incompleta. Pensare il cinema vuol dire tentare di darle una forma. Labarthe le aveva trovato un nome; la chiamava modernità e per lui i moderni erano Cassavetes e Antonioni. Ma anche Renoir e Vigo. In questo senso fare una storia del cinema non ha senso: il vero cinema è sempre presente. La serie ha cambiato spesso nome ma il segno distintivo è rimasto tenacemente: quel «de notre temps» che era l’idea fissa di Labarthe. Un’ossessione per il proprio tempo, in cui il cinema compare come oggetto della riflessione e come suo mezzo. Ma chi è quel «noi» e qual è il «loro tempo»? Difficile dire.

I suoi compagni di strada sono stati tutti quelli che si sono posti seriamente queste domande. Per loro, la porta di Labarthe è stata sempre spalancata. L’uomo era indissolubilmente legato ad un modo di fare, di parlare e quindi di scrivere che per non sbagliare possiamo definire «Nouvelle vague». Certi caratteri esteriori (il cappello di feltro, una gitane maïs sempre pendente dal labbro) ne facevano un personaggio noto a tutti i cinefili francesi, riconoscibile nei moltissimi film in cui è apparso (da Fino all’ultimo respiro di Godard fino a Tourné di Mathieu Amalric). Ma in questo spirito c’era un rifiuto di lasciarsi inscrivere in qualunque categoria. Persino il suo tempo, Labarthe lo aveva in gran parte inventato da sé.