La “Maison Cubiste” di André Mare, 1912: Jean Metzinger, “La Femme à l’éventail”, New York, Solomon R. Guggenheim Museum

Le scandale de la Maison Cubiste, come recita il titolo della recente mostra al Musée Fernand Léger – André Mare nella normanna Argentan (a cura di Magali Guillaumin e Ophélie Gelu, catalogo Mairie d’Argentan, pp. 80, euro 18,00), si rivela sempre più, con il procedere degli studî, una sensibilissima cartina tornasole delle varie ‘posizioni’ nell’avanguardia parigina degli anni dieci. Al Salon d’Automn del 1912, sotto la regia dell’uomo nuovo André Mare, il cui merito storico resta tuttora sottostimato, vide la luce quel Projet d’hôtel (titolo ufficiale) che si proponeva, nello scivoloso territorio delle arti applicate, quale risposta francese alla schiacciante egemonia monacense.
Fondando nel 1903 il Salon d’Automn, Frantz Jourdain lo aveva inteso, modernamente, come incontro e mescolanza fra le varie forme dell’espressione, riservando da subito al ‘decorativo’ uno spazio ben riconoscibile, che dal 1910 fu occupato dagli ‘spettacoli’ del Deutscher Werkbund. Ed è proprio la sezione Arts Décoratifs che, nell’ottobre del ’12, la Maison Cubiste (titolo successivo, Walter Pach 1914) era chiamata a introdurre scenograficamente, fra lo stupore, l’ironia, la ripulsa dei convenuti al Grand Palais. All’inaugurazione, racconta Charlotte Mare, compagna di André, «c’era un parapiglia infernale, e io, Gaby Villon, Marie Laurencin dovevamo urlare la nostra ammirazione e difendere la maison cubiste brandendo gli ombrelli». Non mancò l’interpellanza alla Camera dei Deputati, con il deputato socialista Marcel Sembat a difesa dei novatori.
Il prospetto architettonico era stato ideato da Raymond Duchamp-Villon. L’interno si articolava intorno a un vestibolo che dava accesso, sulla destra a un salon ironicamente battezzato bourgeois, sulla sinistra a una più piccola chambre à coucher. Si era voluta dare l’impressione di interni abitati, con perfino, nell’alcova della stanza da letto, un paio di pantofole ricamate. Per gli arredi, Mare – che era anche pittore di tempra, amico d’infanzia di Léger – aveva chiamato a raccolta i cubisti suoi amici. Léger, Metzinger, La Fresnaye, Marcel Duchamp, Gleizes presentavano, ciascuno, un dipinto per il salotto. Jacques Villon realizzò un servizio da caffè; Marie Laurencin, trumeaux e porcellane; Georges Ribemont-Dessaignes, un tappeto; Duchamp-Villon, una scultura, La Vasque, per l’ambiente di snodo; La Fresnaye, di nuovo, la boiserie e il caminetto, con l’orologio da tavola soprastante, per ciascuna delle due stanze, oltre a una porta. Gli artisti da cavalletto si affiancavano ad artisti-decoratori come Gampert, il maestro del vetro Marinot, Sabine Desvallières, Paul Vera e lo stesso Mare, che faceva anzi la parte del leone: mobili, le legature in cui eccelleva, che deliziavano Apollinaire, la carta dipinta e le porte del vestibolo, tappezzerie delle sedie, il copriletto.
A parte le singole prestazioni, colpisce l’unisono decorativo, in un esprit che miscelava novità e tradizione. Infatti, pur ponendosi in rottura con l’Art Nouveau sotto il segno cubista, pur scandalizzando, l’impresa risentiva fortemente di moduli linguistici precedenti, che garantivano, nell’acceso confronto con le arti applicate tedesche, la sua francesità – paradossale avvitamento nazionalistico: il cubismo era considerato boche (crucco).
La stessa facciata di Duchamp-Villon, di cui nulla resta, implicava un mélange stilistico ricco di suggestioni e decisamente lontano dalle coeve ricerche di energia centripeta, architettonico-sculturali, dell’artista, iniziate con il Baudelaire (1911) e destinate a compiersi nello Cheval (1914), culmine di una bruciante parabola troncata dalla guerra. Dei primi schizzi, egli conserva il riferimento ai prospetti degli hôtels particulieres settecenteschi, dove innesta un partito ornamentale moderno, astratto geometrico, in linee dritte.

Purtroppo le condizioni ambientali resero impossibile la sopraelevazione, di cui resta testimonianza nelle foto della maquette, che era in gesso, di grandi dimensioni. La costruzione in situ si ridusse al piano terra. La maquette, che avrebbe messo in grado di integrare mentalmente il mancante, non fu esposta, e così il moncone, seppure di effetto clamoroso, non poté essere apprezzato quale elemento organico. È uno dei motivi che provocarono tante critiche, spesso feroci, nella letteratura dell’epoca, come ha suggerito recentemente Patrick Julien nell’ottima scheda relativa in Raymond Duchamp-Villon. Catalogue raisonné de l’œuvre sculpté? È possibile. La maquette fu esposta nel 1913 all’Armory Show di New York: distrutta a sua volta, probabilmente durante il trasporto di ritorno, e presentata nella replica su scala inferiore del 1970 (proprietà Denis Vene, nipote di Mare) in occasione della mostra di Argentan, accanto alle nitide foto storiche, della maquette come del costruito, provenienti dalla Bibliothèque Kandinsky del Centre Pompidou.
Fu nel suo laboratorio di Puteaux che, supportato dai fratelli e dai compagni d’arme, Duchamp-Villon realizzò la finitura in bianco della facciata, prima della messa in opera al Grand Palais. Non sappiamo (testimonianze contraddittorie) se fosse in cemento armato, la grande novità introdotta dai fratelli Perret, o in pietra con struttura interna di acciao. «Le riunioni in casa dei Duchamp-Villon erano animate e allegre. I pittori hanno un modo di stare insieme molto più felice di quello dei poeti e degli scrittori (…). A parte l’eccitazione spirituale (…), la gente che vi si incontrava non suscitava proprio nessuna malinconia». Chi abbia cara la ‘memoria’ di Ribemont-Dessaignes in Déjà Jadis (1958) non può non vedere i giovani del gruppo di Puteaux – che proprio negli stessi giorni progettavano la mostra capitale della Section d’Or – affaccendarsi fervidi, energici e solidali intorno alla strana creatura architettonica di Duchamp-Villon.
«Ton idée est tout a fait épatante pour nous. Très épatante. Les gens verront du cubism à domicile», scriveva Léger a Mare nell’agosto del ’12. In effetti si trattò del primo tentativo di proiezione ambientale del cubismo. Cubismo? In alternativa alle vecchie letture moderniste, avvitate intorno all’ortodossia di Braque e Picasso (un autore su tutti: John Golding, 1959), è ormai d’uso, felicemente, un’idea più inclusiva e sventagliata del fenomeno, che a partire dagli anni ottanta-novanta (Christopher Green, Kenneth Silver, David Cottington) suggerisce di ragionare in termini di cubismi. All’opera nella maison presentata al Grand Palais erano i cosiddetti «cubisti da Salon», coloro che, generalmente estranei alle ricerche dei fondatori centellinate dalla galleria di rue Vignon (D.-H. Kahnweiler), ne avevano offerto declinazioni meno strutturali e drastiche, che continuavano a nutrirsi di aspetti della tradizione. A partire dal 1910 questi artisti si erano fatti spazio all’interno delle istituzioni espositive, imponendosi con la fatidica sala 41 del Salon des Indépendants 1911, e nello stesso Salon d’Automn 1912, in cui figurava la Maison Cubiste, erano presenti in schiera (Gleizes, Kupka, Léger, Metzinger, Picabia…) nella sala XI. A breve giro, il mese di ottobre, si ritrovarono nella mostra della Section d’Or, 64 bis, rue La Boétie, che presentava in tutte le sue forme l’universo degli eterodossi, dal modernismo assoluto di Duchamp e Picabia al neo-realismo cézanniano di L.-A. Moreau e Segonzac.
Storicamente, chi avrebbe interpretato nel modo più conseguente l’assunto prismatico, di base leonardesca, della Section d’Or fu il maggiore dei fratelli Duchamp, Jacques Villon. Questo tipo di ricerche, basate su un ordine matematico che organizza, sfaccettando prospetticamente, il carosello luminoso del reale, furono trasferite da Duchamp-Villon (che dei fratelli era il secondo) in alcune parti, le più moderne, della facciata della Maison Cubiste: acme, l’aggetto del balcone centrale, «una embricatura assai elaborata di poliedri e prismi in punta di diamante» (Julien). Seppure di scopo ornamentale, la soluzione era ardita, e tuttavia qualcosa di assai simile era prodotto negli stessi giorni in Boemia dagli architetti e decoratori cechi Josef Gocár, Josef Cochol e Pavel Janák, il cui lavoro non sembra però fosse noto, in quel momento, a Duchamp-Villon, che lo scoprì probabilmente solo nel 1914 in alcune fotografie della rivista «Montjoie».
Gli spazi interni della casa ideata da André Mare rappresentavano un significativo spaccato del gusto decorativo che qualifica determinate esperienze in seno al «cubismo da Salon». In che misura questo aspetto fosse presente nei pensieri dei giovani dell’avanguardia lo testimonia Léger, cioè il meno decorativo di tutti, nella lettera già citata a Mare, che così continuava, a proposito del suo personale contributo alla Maison Cubiste: «Penso di avere cose ricche di colori e assai fresche e assai comprensibili e le meno cubiste possibile…».
Espunto dalla critica formalista, il problema del ‘decorativo’ nel linguaggio cubista è stato oggetto, in anni recenti, di penetranti disamine. David Cottington, in un saggio su La Fresnaye (2017), ha definito lucidamente i termini del problema, ritagliandoli intorno alla figura più charmante del cubismo altro, e riservando un posto considerevole alla posizione di Mare, che di La Fresnaye era intimo. Nel determinare l’utilizzo «piacevole» e «accattivante» della geometrizzazione, della fusione tra i piani, della prospettiva multipla, l’analisi di Cottington si fa perspicua in relazione ai successivi taccuini di guerra di Mare, in certe soluzioni quasi taccuini di… moda: modernità edonista nelle trincee. Sul crinale 1912 lo stesso Metzinger, fra i «cubisti da Salon» il più ortodosso, presto prossimo all’austerità di Juan Gris, si avventurava nel decorativo con alcune silhouettes di donne elegantemente vestite, tra cui La Femme à l’éventail per il «salone borghese» della Maison Cubiste.
Se non si fosse interposta la guerra, con i suoi tragici effetti sulle vite stesse di alcuni degli artisti in questione (Duchamp-Villon, La Fresnaye, lo stesso Mare…), il cubismo decorativo ‘del 1912’ avrebbe avuto forse uno sviluppo più organico di quanto non risulti da certe frammentarie persistenze, perlopiù accademiche. Mare, che con la Maison Cubiste aveva cercato di proporre un virtuoso equilibro tra le diverse espressioni (pittura da cavalletto, architettura, arti applicate), diede sviluppo settoriale a quest’idea integrata, associandosi nel 1919 al designer e progettista Louis Süe: fondarono insieme la Compagnie des Arts Français, destinata a rivoluzionare gli arredi degli anni folli. Rimodularono l’antico stile Luigi Filippo secondo il linguaggio déco; con i loro mobili di linea semplice e legni preziosi, intarsiati in madreperla, offrirono l’espressione più compiuta del cosiddetto Stile 1925.
E la pittura, che era sempre stata la sua vera passione e il suo cruccio, divenne per André Mare una specie di rifugio sognato, prima della morte nel 1932, a 47 anni, in seguito ai tardi effetti dei gas mostarda patiti nelle trincee.