L’arco di tempo dei ventidue saggi lirici collazionati in Vasi rotti (Mattioli 1885, traduzione di Nicola Manuppelli, pp. 204, € 15,00) di Andre Dubus (padre), finissimo scrittore di racconti della scuola di Richard Yates, Raymond Carver, Gordon Lish (tutti influenzati da Hemingway e Cheever), copre il periodo che va dal 1977 al 1990.
Il corposo saggio eponimo, il più lungo della serie, collocato in chiusura, racconta del nodo cruciale che dette origine alla scrittura di questo libro, conferendo un tono quasi mistico-religioso alla materia su cui Dubus riflette.

Vasi rotti (si badi: è un titolo biblico) racconta, infatti, dell’incidente stradale di cui fu vittima l’autore, nel tentativo di prestare soccorso a due feriti su un’autostrada, subendo egli stesso un colpo che lo lasciò con una gamba recisa. Ormai malato anche di scompensi depressivi, Dubus dovette adattarsi a vivere su una sedia a rotelle fino alla morte, nel 1999, quando era poco più che sessantenne. Si direbbe che i saggi, divaganti anche sugli esercizi ginnici cui si sottopose, siano la cronaca di un paralimpico. Tuttavia, si capisce che non fu la malattia a determinare lo stato d’animo dell’uomo e dello scrittore, bensì la sua stessa visione della vita, considerata, come ci racconta in «Sulla riva in attesa di Caronte», al pari del traghettatore di anime che ogni giorno rode un pezzo del corpo, per poi farti approdare, con l’ultimo frammento, sull’altra riva del fiume. Altre forme di conforto e di lavorio mentale, tra cui la riflessione religiosa, intervennero allora ad aiutare Dubus a superare l’impasse in cui si trovava.

Un po’ ovunque in una raccolta così ben intrecciata di richiami infratestuali, Dubus dialoga polemicamente con Dio (era cattolico di origini irlandesi e cajun): «Dio è un monologo, un’idea, una filosofia; deve toccare ed essere toccato – la lingua sulla carne – e quel contatto silenzioso afferma i misteri dell’amore e della mortalità». Come il cavaliere del Settimo sigillo di Bergman, giunto al laccio della Morte, egli è costretto a vivere «in costante contatto con la propria mortalità».

Il respiro è una delle misure adottate per contare i passi «che leniscono il nostro passaggio su questo pianeta»: gli è dedicato un racconto brevissimo, «Respirando», in cui, in un grave momento della sua malattia, è un figlio a soccorrerlo, a riportarlo alla consapevolezza della necessità di respirare: «Rallentavo il respiro e cercavo solo di rimanere nel presente, in ogni singolo momento. Senza pensare. Molto più tardi, forse anni dopo, mi è venuto in mente che c’era qualcosa che non avevo detto ai miei figli, qualcosa che magari avrebbe potuto essere loro utile». Si manifesta, in queste pagine, la sensazione di Dubus – mentre pensa che sta morendo – di non avere adeguatamente assolto ai propri doveri di padre. Alla sua ossessione per la morte si aggiunge così quella per la famiglia, messa in crisi dai suoi numerosi matrimoni, dai litigi con le varie mogli, gli abbandoni, le violenze fisiche (bambini inclusi).

La materia di cui è impastata questa cronaca diaristica in stream of consciousness, è senza dubbio prosa lirica, governata da associazioni mentali e narrative puramente automatiche, deittiche. E, quasi come le tessere di un mosaico di un tempo che copre vari decenni, esse vanno a riempire le ellissi sui fatti annotati. Così gli eventi prendono forma completa solo alla fine del libro.

In «Un saluto a Richard Yates», Dubus racconta gli alti e bassi della vita di un narratore di racconti: «Sei l’unico scrittore – gli disse un giorno – che non passi tutto il tempo a preoccuparsi per i soldi e a parlare di mutui, automobili e seconde auto e barche …» Nel 1988 il padre aveva chiesto a Yates: «Dunque, se ti dessero centomila dollari, vuoi dirmi che non ti compreresti nulla e non cambieresti niente di niente, è così?». «Io non voglio soldi – fu la risposta – voglio solo dei lettori».