In un’intervista rilasciata poco meno di un anno fa, in occasione della pubblicazione in Italia del suo Città d’ombra – viaggio attraverso le metropoli che hanno segnato la sua vita, da Alessandria d’Egitto a Roma, da Parigi a New York –, André Aciman ha offerto, con la meravigliosa chiarezza e il dono della sintesi che ne contraddistinguono lo stile, una serie di riflessioni sul senso della propria identità che hanno il sapore di aforismi. «Per amare una città serve un’illusione, un’immagine diversa dalla realtà»; «Serve uno schermo tra te e la realtà, che poi non vediamo mai. Se vuoi sopravvivere, devi inventare un’immagine da sovrapporre a ciò che hai davanti»; «Tutti cerchiamo di farci piacere quello che siamo, credere che abbiamo uno scopo. Ma in realtà a nessuno piace se stesso. Non pensiamo di essere normali, e siamo costantemente in lotta con l’immagine di ciò che vorremmo essere. Io sono solo conscio di non essere chi sono». In queste dichiarazioni sta tutto il fascino di uno scrittore che, nella sua erranza e nella consapevolezza della propria non-identità, rappresenta al meglio quella dimensione post-moderna, post-coloniale e globalizzata di certa narrativa contemporanea sulla quale la critica, specie statunitense, ama tanto esercitarsi. Uno scrittore, però, che sa anche trascendere o evitare la trappola dalla quale il pensiero post-moderno si è lasciato troppo spesso imbrigliare: vale a dire, la tendenza perniciosa a tradurre l’assenza di un’identità che non sia frutto di invenzione in una sorta di paralisi del pensiero, dell’azione, dell’esperienza creativa e della sua irriducibile unicità.

Ebreo sefardita, nativo di Alessandria, costretto all’esilio dal suo paese a quattordici anni, per sfuggire alle persecuzioni di Nasser; vissuto a Roma quindi a New York, dove si è laureato, si è accreditato come uno dei massimi studiosi dell’opera di Proust e insegna letteratura comparata; madrelingua francese, padrone dell’inglese al punto di utilizzarlo per la sua produzione letteraria, in grado di esprimersi correntemente anche in arabo, italiano, greco, Aciman ha scritto romanzi (Chiamami col tuo nome e Notti bianche, due struggenti variazioni sul tema amoroso ambientate rispettivamente in Liguria e a New York), saggi dalla forte matrice autobiografica (come il già richiamato Città d’ombra) e memoir – lo splendido Ultima notte ad Alessandria, premiato con il Whiting Award e considerato il suo capolavoro. Ora il suo fedele editore italiano, Guanda, ci propone il suo terzo romanzo, Harvard Square (traduzione davvero felice di Valeria Bastia, pp. 322, euro 18,50), uscito negli Stati Uniti lo scorso anno ed elogiato incondizionatamente da critici e recensori: una variazione sul tema dell’esilio e dell’identità che proprio al memoir egiziano, ben più che ai precedenti romanzi, sembra volersi agganciare.

È infatti sotto forma di «falso memoir» che Harvard Square si presenta al lettore. Incorniciato da un prologo e da un epilogo nel quale il protagonista (senza nome per tutto il libro, quasi a voler suggerire una falsa identificabilità con l’autore) accompagna il proprio figlio nel tradizionale e americanissimo pellegrinaggio alla ricerca del college migliore, il romanzo racconta un’estate e un autunno trascorsi in gioventù dall’innominato io narrante a Harvard, con lo spettro di un esame sulla letteratura dei Seicento da ripetere e passare a ogni costo, pena l’esclusione dal dottorato di ricerca. Un’estate e un autunno dominati dall’incontro casuale e dalla successiva, breve ma fulminante amicizia con un altro esule, arabo e non ebreo, tunisino e non egiziano, ma anche lui madrelingua francese. Un esule del quale non sapremo mai il vero nome ma solo il soprannome: Kalaj, diminutivo di Kalashnikov, attribuitogli per la tendenza a parlare a mitraglia, sparando a zero contro il mondo, e in primis contro il modello americano, nel quale tutto, dal cibo ai rapporti sociali, dalle donne ai bambini, reca su di sé i segni vistosi di una falsità così organica e strutturale da divenire, paradossalmente, identità e tratto distintivo.

È Kalaj, ben più che l’io narrante, a campeggiare al centro del romanzo, con la sua rabbia sorda, il suo potente risentimento, la sua natura di donnaiolo impenitente che, in un paese estraneo e ostile, può contare solo sul proprio orgoglio, sulla propria, spavalda sessualità, e sul taxi con il quale si guadagna da vivere. Sono queste caratteristiche, unite alla costante, colorita, esilarante polemica contro i cosiddetti amerloques, a intrigare il narratore: per usare le sue stesse parole, «forse Kalaj era la mia controfigura, una versione primitiva di me stesso di cui avevo perso le tracce, di cui mi ero disfatto vivendo in America. La mia ombra, il mio ritratto di Dorian Gray, il mio fratello pazzo in soffitta, il mio Mr. Hyde, la brutta copia di me stesso ancora molto, ma molto grezza. Io senza maschera, senza catene, senza guinzaglio, incompiuto: io senza vincoli, io vestito di stracci, io furioso». In altre parole, la voce narrante crede di trovare in Kalaj tracce, grezze ma proprio per questo autentiche, della propria identità perduta, o di tutto ciò cui ha rinunciato per integrarsi nel mondo dorato di Harvard, e che permane come un disagio, una potenzialità irrealizzata, una salubre rabbia o un’incoraggiante incompiutezza. Nel prosieguo del romanzo, tuttavia, questa convinzione viene progressivamente corrosa, man mano che la stessa identità di Kalaj risulta costruita ad arte, attraverso un atto di volontà: proprio come la Francia sulla quale, partendo dalla lingua condivisa, i due improbabili amici proiettano il sogno di una patria comune e perduta, in un atto d’amore che in realtà – su questo Aciman non potrebbe essere più chiaro – è rivolto «all’idea della Francia, perché della Francia vera non nutrivamo più una gran bella opinione, e viceversa». O ancora: «Forse Francia era il soprannome che davamo alla nostra disperata ricerca di qualcosa di solido nella vita – per entrambi il passato era la cosa più solida che avevamo cui aggrapparci, e in entrambi i casi era scritto in francese».

Harvard Square è prima di tutto questo: un romanzo camuffato da memoir, o viceversa, che dimostra la finzione insita in ogni costruzione identitaria, che si tratti della Francia – meglio, dell’idea di Francia –, o del villaggio tunisino da cui Kalaj proviene, e che viene descritto a qualunque interlocutore ricorrendo alla stessa formula volutamente stereotipata: «la più bella città con le casette bianche del Mediterraneo, a sud di Pantelleria». Ma allora Harvard Square è anche, a suo modo, un romanzo di formazione al contrario, nel quale l’identità non è qualcosa da costruire e acquisire, ma un fardello del quale è necessario sbarazzarsi, un Mr. Hyde che ci tormenta e ci impedisce di raggiungere quella «coscienza di chi non siamo» senza cui non è possibile vivere. Un tema drammaticamente contemporaneo, che Aciman sa raccontarci con la stessa lingua duttile, cosmopolita e penetrante dei suoi precedenti libri, unita a sprazzi di autentica comicità. Divertimento e malinconia coesistono e si alimentano a vicenda, grazie a un senso del luogo infallibile (Harvard e il demi-monde che circonda il campus non sono mai stati descritti con tanta brillantezza e padronanza dei dettagli), reso ancor più autentico dal disagio e dallo sradicamento rievocato dalla voce narrante. E le tirate di Kalaj, la sua furia iconoclasta e fragile al contempo, entrano a diritto tra le migliori pagine di letteratura comica degli ultimi anni.