La statua di Psy, la star del K-pop divenuta simbolo della cosiddetta Korean-wave con la canzone «Gangnam style», si trova sulla via centrale della movida di Gangnam, il quartiere della Seul bene. Due enormi e bronzei polsi sovrapposti, con alle estremità due pugni chiusi, a rappresentare il balletto del cavallo, ovvero il tema del video della canzone che, sin dalla sua pubblicazione nel 2012, è stato per lungo tempo tra i più visti su YouTube.

La statua è stata inaugurata nel luglio del 2016 ed è una popolare meta di pellegrinaggio per gli amanti del K-pop, il korean pop, prodotto di punta da esportazione sudcoreano. Ma soprattutto il monumento celebra l’unica canzone che, per ora, è riuscita davvero ad aprire le porte della musica coreana al mercato occidentale.

Da vent’anni ormai il soft power made in Korea ha quattro vettori, egualmente promossi e sostenuti economicamente dal governo: la musica, le serie tv, il cibo e la bellezza.
La visita alla statua di «Gangnam style» è compresa nella maggior parte dei pacchetti turistici della capitale coreana, ed è il gran finale del giro nel quartiere celebrato dalla pop star miliardaria Psy.

Il centro della movida di Gangnam è una manciata di strade circondate da grattacieli, nella tradizione delle grandi metropoli asiatiche, un numero spropositato di locali notturni costosissimi, dove si beve per lo più birra corretta con il liquore tradizionale, il soju, alternati a cliniche dentistiche e di chirurgia estetica che promettono miracoli senza troppi intoppi burocratici.
Ma a Gangnam, che ha le dimensioni di una città nella città, ha sede anche la maggior parte delle compagnie che costruiscono, letteralmente, gli idoli coreani da esportazione.
Ad Apgujeong-dong, per esempio, c’è la Cube entertainment, che è nell’Olimpo della musica K-pop grazie a gruppi come i Beast e le 4minute.

Nel 2015 la Cube ha fatto 19 milioni di dollari di vendite, a cui si aggiungono tutti gli eventi con le band della scuderia, che non sono solo i concerti ma anche i raduni per i fan, le produzioni televisive e soprattutto le audizioni per scovare i nuovi talenti.

Il business del K-pop è una macchina inarrestabile, di promozione sia all’interno sia all’esterno del paese.

È per questo che, qualche settimana fa, quando la Cube ha rilasciato un comunicato con i dati delle perdite nel 2016, dovute all’allontanamento dei suoi due gruppi di punta e al boicottaggio cinese legato al sistema antimissilistico Thaad (un 13,1 per cento di vendite in meno rispetto al 2015) qualcuno ha iniziato a sospettare che, prima o poi, la bolla potrebbe scoppiare.
È stata la crisi a far capire al governo sudcoreano come poter competere con due vicini ingombranti come il Giappone e la Cina.
La crisi asiatica della metà degli anni Novanta, quando i grandi conglomerati iniziarono a puntare sulle tecnologie, i videogame, e Seul tirò fuori ingenti finanziamenti per sviluppare il settore della «creatività».
Lo spiega Euny Hong, nota giornalista e commentatrice di affari asiatici che ha vissuto gran parte della sua infanzia a Gangnam, nel libro del 2014 «The Birth of Korean Cool. How One Nation is Conquering the World Through Pop Culture».

La nascita della Korean Wave è andata di pari passo con la trasformazione radicale della società coreana, che da nazione povera, con una democrazia debole, stava diventando la quarta economia asiatica, l’undicesima del mondo.

Prima della fine di quest’anno, venti Sejong Culture Academies, istituti di promozione della cultura coreana gestiti dalla King Sejong Institute Foundation, verranno aperti in altrettante città nel mondo.
Ce ne sarà uno a Mosca, uno a Sofia, uno a Bishkek, uno a Teheran. Attualmente, la fondazione King Sejong Institute è presente in cinquantotto paesi nel mondo, e il capo Song Hyang-keun ha detto qualche giorno fa al Korea Herald che le nuove aperture serviranno «a diffondere non solo la lingua coreana, ma anche la cultura coreana. Speriamo possano diventare delle piccole Coree nel mondo».
Insieme con il taekwondo, arte marziale tradizionale coreana e sport olimpico soltanto da Sidney 2000, gli istituti serviranno a diffondere l’arte della calligrafia coreana, il seoye, la musica tradizionale, la cucina.

E non è un caso se l’istituto di cultura coreano a Roma, che ha aperto alla fine dello scorso anno, ha già iniziato con i suoi corsi di cucina gratuiti.

La parola chiave è hallyu, cioè l’influenza della cultura sudcoreana e la sua riconoscibilità all’estero, un sistema che finora ha funzionato talmente bene che il ministero dell’Economia giapponese, nel 2010, è stato costretto a inventarsi il «Cool Japan» per tenere testa alla competizione con la Corea.

L’Indonesia è uno dei paesi che più hanno subìto l’influenza del soft power coreano. A Giacarta i ristoranti alla moda tra i giovani sono quelli dove si cucina il kimchi, il kimbap o il bulgogi, la carne di manzo marinata con cui si farciscono perfino i panini delle note catene di fast-food americane presenti in Asia. Il governo di Seul finanzia da anni un ingente numero di ricerche per confermare gli effetti benefici sulla salute del kimchi, il piatto più tradizionale della cucina coreana a base di verdure fermentate.

E non c’è coreano che s’azzardi a smentire che il kimchi fa bene alla digestione, è un antiossidante naturale e ha perfino effetti anti-età.
Se prima erano i soprattutto turisti cinesi a passeggiare intorno al palazzo Gyeongbokgung di Seul in hanbok, il vestito tradizionale coreano, dopo l’istallazione del Thaad e con la sospensione della vendita dei pacchetti turistici per volontà di Pechino, è più evidente quanto il soft power coreano abbia funzionato bene anche in altre zone d’Asia.

Nel 2016, secondo gli ultimi dati ufficiali, più di trecentomila indonesiani hanno viaggiato in Corea del sud, spinti soprattutto da certe serie tv come «Descendants of the Sun».
La Korean Wave, in tutti questi anni, ha azzeccato soprattutto il target: i giovani sono ossessionati dalla bellezza?, la Corea del sud vende i migliori e sofisticati prodotti per la cura di sé.
I giovani si annoiano con le telenovelas storiche fatte in Cina?, la Corea del sud esporta i Korean drama, dove si parla d’amore, di sesso e di musica senza mai però forzare la mano e rischiare la censura.
Se la bolla commerciale dovesse scoppiare, prima o poi, sarebbe per colpa della Cina, ma è ancora presto per dirlo.