Che le pertinenze industriali inutilizzate e in rovina siano spettacolo di paesaggio triste è spesso sotto gli occhi di tutti. Altrettanto sotto gli occhi è però la bellezza del recupero di manufatti che l’industria in disfacimento ha lasciato sul terreno: un risanamento che è anche riscatto di una storia che è stata spesso insieme di entusiasmo e sfruttamento, di speranza e delusione.

MANCAVANO FORSE i volumi che cominciassero a sistematizzare l’immenso patrimonio delle dismissioni industriali che si tramutano in nuova avventura attraverso un turismo intelligente e ricco di prospettive future. Naturalmente l’avventura non è solo legata a manifatture riscoperte e valorizzate dopo la chiusura (accessibili e da visitare, naturalmente) ma anche a industrie e laboratori attivi che conservano una parte del loro patrimonio adibito a museo da mostrare con l’orgoglio di un’impresa che viene da lontano.

IL LIBRO DI JACOPO IBELLO Guida al turismo industriale (Morellini Editore, pagine 289, euro 17,90), che si concentra sui siti più accessibili, fa parte di questa apertura a una parte di turismo più consapevole. E’ un volume con un’antologia ricca di schede informative sui monumenti dell’industria riconvertiti in musei, originali land art, spazi di incredibile impatto emotivo.

IL LIBRO PARTE DA una disamina dell’industria nel nostro paese, dalla sua disomogeneità territoriale, per approdare a una storia del turismo industriale, senza dimenticare naturalmente una primogenitura in questo campo che non può non essere attribuita – per ragioni di industrializzazione storica – al Regno Unito che ha iniziato negli Anni Cinquanta del secolo scorso a recuperare manufatti.

IL LIBRO DI IBELLO non dimentica la storia dell’industria che è stata perlopiù di grande sfruttamento ma anche di apertura verso il mondo subalterno. Scrive a questo punto l’autore: «I tre siti italiani Unesco del patrimonio industriale (Ivrea, Crespi d’Adda, San Leucio nel complesso della Reggia di Caserta) sono tra i migliori esempi al mondo di quello che è noto come «paternalismo industriale»: un modo di provvedere ai bisogni della classe operaia ma anche di controllarla, cosa che non impedì a quest’ultima di organizzarsi per chiedere e ottenere diritti e miglioramenti che riguardavano tutti i cittadini. Fu proprio a partire dal primo sciopero generale del 1904, proclamato dalla Camera del lavoro di Milano, che gli operai attraverso le loro organizzazioni politiche e sindacali recitarono sempre un ruolo di primo piano negli eventi che segnarono la storia d’Italia, dallo sciopero antifascista del 1943, alla Resistenza, fino alle contestazioni degli Anni Sessanta».
E si sfogliano con piacere, e voglia di andare a visitarli, questi siti che attraversano l’intera penisola

DAGLI STABILIMENTI OLIVETTI del Mam (Museo Virtuale dell’Architettura Moderna) a Ivrea alla Fabbrica della Ruota di Pray (Bl) che raccoglie più di duecento anni di storia laniera; dal Museo del cappello Borsalino di Alessandria al Galata Museo del Mare di Genova; dal Museo della Macchina per Caffé di Binasco (Mi) al Museo della Motocicletta Frera di Tradate (Va); dai Musei della Grappa di Bassano (Vi) al Museo Lamborghini di Funo (Bo); dal Museo della Carta di Fabriano (An) al Museo del Cristallo di Colle Val d’Elsa (Si); dal Museo dell’Elba al Museo Piana delle Orme sulla bonifica di Latina.

DAL MUSEO DELLA CAMPANA di Agnone (Is) al Museo Nazionale di Pietrarsa di Napoli; dal Museo della Seta di San Leucio (Ce) allo Spazio Strega sulla storia dell’omonimo liquore di Benevento; dal Museo Archeoindustriale di Terra d’Otranto di Maglie (Le) al Museo Liquirizia Amarelli di Rossano (Cs); dal Parco Minerario di Valguarnera (En) al Museo dei treni Storici di Palermo; dal Museo delle Saline di Marsala e Trapani all’Argentiera di Sassari.

E’ IMPOSSIBILE ELENCARE i 300 siti del libro ma Jacopo Ibello si inoltra per bene in un mondo che rappresenta un interesse crescente verso storia e memoria del lavoro degli italiani.