Il vero vincitore delle elezioni del 26 novembre in Honduras, il candidato dell’opposizione Salvador Nasralla, lo aveva detto e ripetuto: le proteste non si fermeranno finché il presidente Juan Orlando Hernández non se ne andrà a casa. E così migliaia di persone sono scese nuovamente in strada a Tegucigalpa per esigere il rispetto della volontà espressa nelle urne, sfidando ancora una volta la repressione della polizia, che – depurata da quegli elementi che si erano schierati con il popolo, tutti licenziati dal governo – ha usato gas lacrimogeni e proiettili di gomma contro i manifestanti e contro lo stesso coordinatore dell’Alleanza di opposizione contro la dittatura, l’ex presidente Manuel Zelaya.

Ma né la violenza, né gli arresti e neppure gli omicidi (almeno 45) sembrano in grado di scoraggiare il popolo, deciso a impedire, il 27 gennaio, la cerimonia di insediamento di Hernández (che, però, secondo fonti extra ufficiali, pare sia stata già registrata e verrà trasmessa in differita proprio per bypassare le proteste). In questo quadro le manifestazioni dei giorni scorsi, ha spiegato Nasralla, rappresentano solo un antipasto rispetto allo sciopero nazionale che inizierà il 20 gennaio e si prolungherà fino al 27.

Una settimana in cui la mobilitazione «sarà totale».È chiaro, tuttavia, che il popolo dell’Honduras è rimasto solo nella sua lotta in difesa della democrazia, dal momento che l’Organizzazione degli Stati americani (Oea) non sembra intenzionata ad adottare misure drastiche contro il governo illegittimo, tanto meno dopo il riconoscimento della «vittoria» di Hernández da parte degli Stati Uniti.

Il massimo che l’Oea sembra disposta a fare è sollecitare timidamente l’invio della documentazione con cui il governo pretenderebbe di dimostrare l’infondatezza del rapporto degli osservatori, in cui, alla luce delle tante e clamorose irregolarità riscontrate, si raccomandava di procedere alla convocazione di nuove elezioni.