Il disastro di Genova solleva inquietudini profonde, perché ripropone in chiave tragica interrogativi tanto essenziali quanto rimossi. Innanzitutto, ci ricorda che la nostra vita quotidiana “moderna” riposa su un vasto insieme di beni, servizi e attività economiche che nessuno, per quanto abbiente, può procurarsi con risorse proprie. È l’“economia fondamentale”: un patrimonio intrinsecamente collettivo, talmente importante da essere per lo più dato per scontato.

Utile a questo proposito citare il lavoro a cura di F. Barbera, J. Dagnes, A. Salento, F. Spina, Il capitale quotidiano. Un manifesto per l’economia fondamentale, Donzelli 2016.

Il crollo del ponte Morandi mostra che questo patrimonio non è dato una volta per sempre, ma può anzi diventare fragile, restituendo la collettività a una condizione di bisogno. In secondo luogo, quest’evento — verificatosi nel cuore del “triangolo industriale” e al di fuori di qualsiasi calamità naturale — mostra quanto sia parziale l’idea di sviluppo e di innovazione che si è affermata negli ultimi trent’anni, segnata dal primato dell’alta tecnologia e dell’advanced manufacturing. Siamo costretti a confrontarci con un’evidenza inattesa: la tecnologia con cui sono edificate infrastrutture e abitazioni è fragile e difettosa. Quel che è dato conoscerne, finanche ai tecnici, è assai meno di quanto sarebbe lecito attendersi. Il disastro di Genova è una clamorosa dichiarazione di crisi dei sistemi esperti dell’economia fondamentale, ovvero delle basi tecniche e organizzative della modernità.

In terzo luogo, dobbiamo prendere atto che questa crisi non è un dato ineluttabile: è l’esito del fallimento della regolazione dell’economia fondamentale. A partire dagli anni ’80 del secolo scorso, i proclami sull’inefficienza della gestione pubblica (che propriamente pubblica non è mai stata) hanno dato sostegno ai processi di “liberalizzazione” e privatizzazione, portati oggi alle estreme conseguenze. Piuttosto che i guadagni di efficienza promessi, ne è scaturita una tendenza al “breveperiodismo”, alla produzione di extraprofitti, agli investimenti finanziari, alla rendita, con un intreccio fra azione pubblica e interessi privati spesso inestricabile. Il caso delle concessioni autostradali, noto da tempo (v. G. Ragazzi, I signori delle autostrade, il Mulino 2008), è solo uno dei tanti.

Ora, sarebbe un errore interpretare questo momento semplicemente come un’occasione per attendere gli errori e le approssimazioni del governo in carica, che certo non mancheranno. Piuttosto, occorre interrogare questo trauma collettivo per fare i conti con questioni non soltanto irrisolte, ma spesso — come detto — rimosse.

Prima di tutto, bisogna tornare ad avere chiara l’importanza dell’economia fondamentale. Non si tratta soltanto del welfare inteso in senso stretto. L’economia fondamentale è un insieme molto più ampio di beni, servizi, attività economiche, che comprende la produzione e distribuzione del cibo, le infrastrutture, la sanità, l’istruzione, la gestione dei rifiuti, la distribuzione dell’acqua e delle energie, e via dicendo. Comprendere appieno l’importanza di questo spazio economico significa anche superare l’“illusione redistributiva”, ovvero la convinzione che disuguaglianze, povertà e declino del benessere si possano contrastare semplicemente attraverso misure di redistribuzione del reddito, quantunque evolute. Un ponte che crolla uccide il povero e il ricco, senza distinzioni.

Serve oggi uno spazio di riflessione pubblico, un campo di visibilità per l’economia fondamentale. Occorre mettere al centro del discorso pubblico le attività economiche e i sistemi esperti ai quali affidiamo la nostra vita quotidiana, superando il monopolio simbolico dell’hi-tech. Non possiamo fare a meno di affidarci quotidianamente a quei sistemi, ma questa fiducia deve essere ben fondata, su basi di conoscenza solide e trasparenti. La paura di veder crollare ponti è incompatibile con l’idea di benessere che il Novecento ci ha consegnato.

Su tutte, resta la necessità di ripensare, integralmente e in forme innovative, la regolazione dell’economia fondamentale. La qualità dei beni e dei servizi essenziali dipende dai processi economici cui sono affidati. Una nuova costituzione dell’economia fondamentale dovrebbe basarsi sul principio-guida della “licenza sociale”: poiché tutti gli attori che operano nell’economia fondamentale godono di una domanda sociale di beni e servizi pressoché infinita e anelastica, non possono sottrarsi a un vincolo di trasparenza e utilità sociale. Lo spazio dell’economia fondamentale deve restare esente da dinamiche di rendita e di mero arricchimento.

In tutta Europa abbondano esperimenti di innovazione nel campo dell’economia fondamentale. In molti casi si tratta di iniziative di auto-organizzazione economica delle comunità; ma non mancano forme di regolazione innovativa, su scale diverse. Occorre adesso federare queste esperienze, metterle a sistema, costruendo uno spazio ibrido di attori sociali collettivi, di esperti, di personale politico. Questa è la missione che si è data il collettivo per l’economia fondamentale (www.foundationaleconomy.com), e forse è la sfida sulla quale si può costruire oggi una sinistra europea.