Art of the Real, arte della realtà, era il titolo di una mostra realizzata al Moma nel 1968 che polemizzava con l’idea che l’arte astratta non fosse reale. Capovolgendo quel concetto, la Film Society of Lincoln Center ha usato lo stesso titolo per una retrospettiva che ha l’obbiettivo di provare come la realtà osservata in un documentario diventa arte. Jean Rouch e Paulo Rocha, James Benning (3 corti in prima mondiale) e il giovane argentino Lisandro Alonso, la nouvelle vague rumena di Corneliu Porumboiu e la dittatura vista da Alain Cavalier, Anna di Alberto Grifi e San Clemente di Raymond Depardon, Derek Jarman, il filippino Raya Martin e un omaggio a Michael Glawogger, improvvisato dopo la sua morte, avvenuta la scorsa settimana.

Curato da Dennis Lim, il programma offre una visione espansa del cinema di non fiction, collocando in una prospettiva storica le sempre più diverse declinazioni in cui si manifesta oggi il documentario. Facilmente frequentabile nei festival (specialmente europei), questo cinema ibrido (di realtà e fiction, di videoart, avanguardia e «circuito d’essai»), reso possibile dall’abbattimento dei costi di produzione, dalla moltiplicazione dei circuiti distributivi e dalla crescente contaminazione dei linguaggi, oggi comincia a cercare/trovare spazio anche in sala e in Vod presso un pubblico più vasto.

Iniziata l’undici aprile, con la buffa, picaresca, collaborazione tra Raya Martin e Mark Peranson La ultima pelicula e conclusasi sabato, con la proiezione di Actress, di cui parliamo qui accanto, Art of the Real è anche una scommessa sul pubblico e manifesto politico/estetico che si contrappone al trend del documentario «giornalistico», a sfondo socio/politico che domina la non fiction, specialmente in Usa. È un cinema più vicino a percorsi eccentrici come quelli di Errol Morris o Ross McElwee che a Michael Moore, Alex Gibney o alla maggioranza dei documentari «informativi» e che si vedono al Sundance Film Festival. Utilizzato come un vero e proprio strumento di controinformazione – specialmente negli anni bui della presidenza Bush, quando film come Enron. The Smartest Guys in the Room di Alex Gibney, il doc verde presentato da Al Gore An Inconvenient Truth, l’exposè sulle torture dietro alle quinte delle guerre in Iraq e Afghanistan Taxi to the Dark Side, ancora di Gibney,…hanno veramente contributo ad aprire gli occhi del pubblico sui non detti dell’Amministrazione e del mainstream mediatico Usa, il documentario americano è cresciuto esponenzialmente ma è venuto purtroppo sempre più a identificarsi con la sua dimensione contenutistica, formalmente derivata dalla struttura dell’inchiesta televisiva –soggetto importante esplorato attraverso le opinioni offerte da esperti/testimoni sotto forma di teste parlanti.

Art of the Real rivendica una maggior libertà artistica, la possibilità di mischiare le carte, di confondere, di lavorare sulla qualità formale – riflessa in lavori come quelli di Robert Greene, intervistato qui a fianco, in documentari come The Art of Killing di Joshua Oppenheimer e Stories We Tell, di Sarah Polley o nelle produzioni del Sensory Ethographic Lab di Harvard, il laboratorio da cui sono Leviathan e Manakaman. «Sembra quasi sbagliato definire documentari i film realizzati in questa vena», ha detto al New York Times Richard Rowley, autore di Dirty Wars, che è uno spaccato incredibile, ricercatissimo, sulle guerre sporche degli Usa in Afghanistan Somalia e Yemen ma a guardarlo sembra un film noir. «Ci fa sembrare degli stenografi, non dei narratori di storie. In realtà c’è un numero enorme di documentari prodotti oggi che sono immersivi e trasformativi come i migliori film di fiction».