Tunisi è una delle capitali più vivaci del continente ed è attraversata dalle stesse contraddizioni che caratterizzano la società tunisina. Un paese considerato avamposto dei diritti umani nell’area del Maghreb, dove da più di 50 anni le donne possono abortire e chiedere il divorzio. Allo stesso tempo negli ultimi anni dalla Tunisia sono partiti molti, considerata la popolazione ridotta, combattenti dello Stato Islamico. Nel 2018 è stata eletta la prima sindaca donna, e senza velo, di Tunisi: Souad Abderrahim, una militante del partito islamista Ennahda. In città stanno nascendo nuovi locali alternativi gestiti da giovani, spazi safe dove anche donne e persone Lgbitq possono bere alcolici e ascoltare musica dal vivo. I prezzi, però, sono «occidentali» come il design che propongono e quindi proibitivi per le classi popolari che, invece, affollano i bar tradizionali frequentati solo da uomini.

HO APPUNTAMENTO con Nadhem, un infermiere e attivista gay tunisino, fuori dal teatro Le Rio, per l’inaugurazione della seconda edizione del festival del cinema queer Mawjoudin, il primo della regione nordafricana.

All’ingresso del teatro ci sono un centinaio di persone che entrano ed escono. Due bodyguard all’entrata controllano che le persone abbiano il braccialetto del festival. Siamo nel centro di Tunisi. Fuori dal teatro piccoli fast-food dove si cucina shawarma, kebab o malfouf. Dei ragazzini cercano di vendere dei fazzoletti per raccogliere degli spiccioli. Passa una volante della polizia con il lampeggiante accesso e fa il giro dell’isolato a passo d’uomo. Siamo a un centinaio di metri da Avenida Bourguiba, la grande arteria che taglia in due la capitale, dove, tra le altre cose affaccia la sede del ministero degli Interni Tunisino. L’edificio è pattugliato da militari e circondato da filo spinato. Nel frattempo i turisti affollano entrambi i lati della strada, passeggiando tra i negozi e gli ombrelloni dei bistrot. Altri militari controllano il flusso di gente da dietro le transenne. Nadhem indica un incrocio, «ad ottobre una donna si è fatta esplodere proprio in quel punto. Per fortuna non c’è stata nessuna vittima. A parte lei. Era legata al terrorismo islamico». La volante della polizia passa di nuovo davanti alla folla che si accalca fuori dal teatro. I passanti guardano incuriositi gli spettatori. C’è chi impreca, chi si chiede «che fine ha fatto la nostra società» e chi divertito fa delle foto al pubblico in attesa.

Il cafè-teatro Le Rio è un edificio antico che da tempo è punto di ritrovo della comunità Lgbitq tunisina. Alle pareti locandine e volantini delle avanguardie artistiche di tutto il mondo. Nadhen racconta che l’anno scorso il festival si è svolto in un hotel fuori città. «Quest’anno abbiamo accettato la sfida di organizzare il festival in pieno centro. In modo che fosse accessibile a tutti e tutte» racconta Alì Bousselmi, attivista dell’associazione Mawjoudin e co-organizzatore del festival. Mawjoudin, in arabo Noi Esistiamo, è un’associazione che si occupa di fornire assistenza e promuovere i diritti delle persone Lgbitq, di migranti, vittime di violenze e persone sieropositive.

IL FESTIVAL INIZIA con un grido di gioia del pubblico e con l’augurio che l’articolo 230 del codice penale, che condanna l’omosessualità, venga abolito. Rami, autore del saggio The History of the criminalization of homosexuality in Tunisia, mi spiega che il codice 230 venne scritto da una commissione del governo coloniale francese all’inizio del secolo scorso. Questo tema viene ripreso dal regista indiano Faraz Aziz Ansari, che nel dibattito in sala sottolinea come la criminalizzazione dell’omosessualità in India, resa finalmente legale nel 2018, venne introdotta dal governo britannico. L’attenzione verso le dinamiche coloniali viene ribadita nella brochure di presentazione del palinsesto «Vogliamo dare spazio alle identità queer del sud del mondo».

Cyrine, co-organizzatrice del festival, racconta «abbiamo bisogno di vederci rispecchiate nelle storie che proiettiamo, questo non succede con i film prodotti in Europa. Non è stato facile ma alla fine abbiamo messo insieme un palinsesto di film in cui possiamo identificarci».

I più di 30 film presentati raccontano storie d’amore e resistenza provenienti da Asia, America latina, Africa e Medioriente. Molti trattano il tema delicato del coming out alle famiglie, e le rispettive reazioni, quasi sempre violente, della comunità. Ci sono genitori che confessano ai figli il loro orientamento e figli che scoprono le vite segrete dei genitori solo dopo la loro morte, grazie a registrazioni o foto. C’è chi si incontra clandestinamente per scambiarsi un bacio e progettare una fuga in città, chi lotta apertamente contro la cultura machista, come la travestita frocia Bixa Travesti, chi emigra negli Stati uniti senza documento e chi denuncia l’avanzata dei coloni israeliani in Palestina.

Durante il festival ci sono anche performance artistiche che combinano musica e danza tradizionale tunisina con sfilate di drag queen e mosse di voguing. Chiedo a Nadhem se sia preoccupato che la frustrazione generata dalla crisi economica e la disoccupazione dilagante possa portare un contraccolpo a livello politico contro la comunità Lgbitq. D’altronde, è notizia del mese scorso, che Shams, l’associazione tunisina per la depenalizzazione dell’omosessualità, sia stata dichiarata incompatibile con «l’identità e ai valori della società araba e mussulmana». Mi dice che al momento gli islamisti sono occupati con altre questioni.

QUEST’ANNO ci saranno le elezioni e il tema più caldo è quello della parità di genere dell’eredità. Le donne tunisine hanno infatti da poco conquistato il diritto a ereditare, se la famiglia è a favore, una quota paritaria del patrimonio. «Alla fine è il potere economico quello che cercano di difendere, perché è la vera chiave per l’indipendenza e l’autonomia» dice Nadhem. E continua spiegando che la commissione per l’uguaglianza Colibe, incaricata dal governo, ha inserito la difesa dei diritti delle persone Lgbitq tra gli obiettivi del prossimo futuro. Per Nadhem ci vuole coraggio e tanta pazienza, ma resta ottimista «nel 2030 tutto questo sarà solo un brutto ricordo del passato».