«L’Isis è il diretto risultato di al Qaeda in Iraq che è cresciuta con l’invasione Usa, esempio di una conseguenza inattesa. Per questo dovremmo prendere la mira prima di sparare». A dirlo non è il governo di Damasco o quello di Teheran. A dirlo è il presidente Obama: lo sviluppo repentino dello Stato Islamico è la conseguenza di otto anni di occupazione Usa dell’Iraq.

Così Obama, accusato di non avere strategie efficaci contro il califfato, si toglie i sassolini dalla scarpa e punta il dito contro il predecessore, il George W. Bush della guerra globale al terrore e dell’esportazione di democrazia. Lo fa in un’intervista a Vice News, scoprendo le divisioni interne all’amministrazione Usa che dice, si contraddice, si smentisce da sola ormai da mesi. Ora fa autocritica: i settarismi iracheni sono il frutto della distruzione dello Stato, delle sue istituzioni, dei delicati equilibri tra sunniti, sciiti e kurdi, spazzati via dalla coalizione dei volenterosi.

Proprio quei settarismi vengono additati da Obama come la principale fonte da cui l’Isis attinge: «Se l’Isis venisse sconfitto, il problema di fondo dei sunniti resterebbe. Quando un giovane cresce senza prospettive per il futuro, l’unico modo che ha per ottenere potere e rispetto è diventare un combattente. Non possiamo affrontare tutto ciò con l’antiterrorismo e la sicurezza, separandoli da diplomazia, sviluppo e educazione».

Le dichiarazioni del presidente sono passate quasi in sordina ma hanno la forza di un terremoto: si mette in discussione l’intera strategia Usa, fatta di interventismo bellico e interessi economici nazionali, priva spesso di una visione di lungo periodo, basata sui finanziamenti a pioggia di soggetti divisivi, dall’ex premier iracheno al-Maliki alla Coalizione Nazionale Siriana.

«L’Isis va visto non solo come un movimento alieno al più vasto mondo politico del Medio Oriente – scrive Ramzi Baroud, direttore di Palestine Chronicle – ma anche come un fenomeno in parte occidentale, il ripugnante risultato delle avventure neocolonialiste nella regione, accompagnate alla demonizzazione delle comunità musulmane nelle società occidentali».

«Con ‘fenomeno occidentale’ non intendo dire che l’Isis sia una creazione delle intelligence straniere – continua – Ovviamente, si è giustificati a sollevare domante su fondi, armamenti, mercato nero, le facili vie con cui migliaia di combattenti sono arrivati in Siria e Iraq. Ma tracciando il movimento dall’ottobre 2006 quando l’Isis nacque, si individuano le sue radici: lo smantellamento dello Stato iracheno e del suo esercito da parte dell’occupazione militare Usa».

E alla fine chi di settarismi ferisce, di settarismi perisce. A stretto giro dalle dichiarazioni di Obama, è giunta la reazione di uno dei falchi dell’entourage di Bush, l’ex segretario di Stato Dick Cheney, grande burattinaio di quell’invasione: «Obama è il peggior presidente della mia vita. Ne pagheremo il prezzo».

Fuori dalle ripicche politiche, resta il grande vuoto della strategia Usa in Medio Oriente: dopo aver cambiato cavallo più di una volta, aver lanciato in prima linea le forze locali irachene, aver continuato a finanziare deboli opposizioni in Siria ed essere stati costretti ad aprire ad Assad, gli Stati Uniti sono nudi. E debolissimi.

Tanto deboli da subire quasi in silenzio l’abbattimento di un proprio drone da parte dell’aviazione siriana. È successo martedì a Latakia, roccaforte della famiglia Assad. I servizi Usa stanno ancora indagando, seppur il governo siriano ammetta di aver colpito il Predator. Perché? Volava fuori dai confini ufficiosi di intervento della coalizione. Obama con Assad non intende parlare ma una cooperazione indiretta esiste. Per questo Damasco non ha mosso un dito da settembre quando cominciarono i raid Usa. Ora però traccia le sue “linee rosse”: Obama voli pure sui cieli siriani, ma non nelle zone sotto il controllo governativo.