È di certo una buona notizia la ristampa di L’amore degli insorti, uno dei più amati romanzi di Stefano Tassinari (edizioni Alegre, pp. 174, euro 15), con le quali Tassinari aveva collaborato nei suoi ultimi tempi – basti citare la «nuova rivista letteraria», oggi portata avanti da un solidale manipolo di scrittori legati a Stefano da vincoli di amicizia e di militanza. Ristampa che cade a un anno dalla scomparsa dell’autore, in un frangente politico che avrebbe bisogno della sua lucida generosità e in un momento in cui sembra di assistere a una (ri)presa di parola sui movimenti degli anni Settanta da parte dei suoi soggetti, a lungo confinati in un limbo ai margini di una storia ufficiale sovradeterminata dal punto di vista dei vincitori: cioè di quello Stato contro cui si tentò l’assalto al cielo, la cui legittimità, moralità, costituzionalità persino, non è mai stata messa in discussione da chi lo ha difeso in modo acritico.
Accanto alle voci di Elicio Pantaleo e Stefano Dorigo (A Riot of My Own, autoprodotto, acquistabile su ariotofmyown.org) e di Massimo Battisaldo e Paolo Margini (Decennio rosso, paginauno, 2013) – cui andrebbe obliquamente aggiunta quella dell’allestimento teatrale di Alessandro Gassman Oscura immensità, tratto dal romanzo di Massimo Carlotto, per la messa in discussione del «punto di vista della vittima», si aggiunge quella dei protagonisti di questo romanzo, a ricordare le ragioni di una generazione che ha avuto anch’essa la propria Spoon River, benché per i suoi caduti «talvolta, hanno chiuso i cimiteri / e concesso solo un lembo di terra sconsacrata». Il che porta a identificare il lettore cui, in prima battuta, si rivolge questo libro: quel lettore che ha provato almeno un po’ di fastidio, se non di rabbia, nel vedere «alla televisione, seduto con finta aria svogliata tra maghi e giovani attrici», qualcuno di «quelli che si sono cosparsi il capo di cenere giurando solo di aver giocato». Fastidio, beninteso, non per quel loro vuotare «un sacco che non hanno mai riempito», ma per il loro occupare la scena «finendo pure col rubarci il passato».
L’operazione letteraria di Tassinari è però diversa da quelle citate: il protagonista di L’amore degli insorti, un ex militante della lotta armata sfuggito alle maglie della giustizia e rinato a nuova vita sotto una falsa identità, è un personaggio di finzione, che instaura un feroce corpo a corpo della memoria con le parole e le ragioni di chi – come l’autore del romanzo – non condivise la scelta delle armi. Il sottile strato di borghese tranquillità – una famiglia che ignora il suo passato, un buon lavoro, una seconda casa al mare – di Paolo (o Emilio, come si è rinominato dopo «l’epoca dei fatti») viene infranto da una serie di lettere firmate da una misteriosa Sonia, che sembra conoscere ogni dettaglio del suo passato, e lo costringe a un viaggio all’interno della propria memoria, delle ragioni di quegli anni, e di quelle della sua scelta. Ad aggiungere un senso di spiazzamento – Tassinari ha molto amato Brecht –, la constatazione che, a parte il protagonista di cui già si è detto, tutte le altre voci di questo romanzo sono voci femminili: come se l’autore avesse voluto costruire un coro di voci e figure «altre» rispetto al proprio sé.
E, attraverso questo espediente narrativo, Tassinari riesce a darci la più convincente prova narrativa (senz’altro all’altezza di Insurrezione di Paolo Pozzi) di questo peculiare genere romanzesco. Il che pone alcune questioni di critica letteraria, e non solo: come mai è un personaggio «fittizio» ad essere la più riuscita incarnazione letteraria del militante della lotta armata – quello che senz’altro riesce a farci comprendere, se non la giustezza delle proprie ragioni, quantomeno che in quegli anni «non c’erano alieni»? In cosa il mestiere del narratore riesce a farsi interfaccia tra la storia reale e la trasposizione romanzesca? La risposta è, con tutta probabilità, nell’assunzione, da parte dell’autore, di quel benjaminiano «compito del narratore», del «conta-storie», che consiste nel prefiggersi la comunicazione non di cronache o eventi, ma, attraverso questi, del mettere in atto la capacità di comunicare e scambiare esperienze. La comunicabilità di un’esperienza non è solo questione di registro narrativo – Tassinari predilige un finto registro medio piuttosto che quello dell’epica scanzonata o disincantata, all’interno del quale linguaggio prosastico inserire brani poetici secondo una metrica peculiare dell’autore, scritta per essere declamata ad alta voce, e che nel penultimo capitolo irrompe in forma di poema; comunicare un’esperienza significa inserire il frammento narrato – reale o fittizio che sia – in un contesto che lo renda comprensibile: è di questo contesto, piuttosto che dell’oggetto peculiare della lotta politica di Paolo-Emilio, che si dà comunicazione al lettore.
In questo modo, le figure narrate, pur nella pienezza della propria contestualizzazione storico-politica, assurgono alla dimensione dell’allegorico. La precarietà della vita clandestina, richiamata dalla scoperta della precarietà della copertura di una «nuova vita», fa segno allegorico alla precarietà di ogni esistenza, «ai gesti che assumono valenze finché li ripetiamo, ai chiodi che ci piantiamo da soli nella testa, alla felicità scolpita ai margini dell’indomani, intanto che il tempo ne corrode i basamenti». E il segreto, quello dell’identità camuffata nei giorni delle armi e quello mascherato da una vita da architetto, si fa allegoria di quel «qualcosa di noi che non possiamo rivelare agli altri, nemmeno alle persone più care, altrimenti finiremmo col non avere più niente a cui restare attaccati, a parte l’inconscio, che è poi quello che ci frega».
Ed è questa cifra allegorica – all’interno di una comunicazione sempre precaria ed eccedente, ma anche sporca, scabra, inadeguata, che non cede alle illusioni della trasparenza, pur non rinunciando alla tensione verso l’altro- che l’esperienza comunicata attraverso la vicenda di Paolo e delle donne del suo piccolo mondo asfittico può avere come destinatario chi a quella generazione non ha appartenuto, di quegli anni non ha esperienza vissuta – come Sonia, la figura che riempie di sé le ultime pagine del libro. C’è un implicito, in questa logica che sorregge la narrazione de L’amore degli insorti (sul quale è necessario un certo riserbo per rispetto nei confronti dei lettori): che il personale sia sempre politico. Che siano politici i sentimenti, le passioni, le ansie, le mancanze, le assenze e le presenze: che i vuoti e gli abbandoni «privati» di Sonia trascendono il fatto familiare. È la consapevolezza di questo assunto a permettere all’autore una stratificazione narrativa che dà complessità a una storia in apparenza semplice: che spiega in che senso «sbagliare dalla parte giusta» sia in relazione con il rapporto tra «l’utopia di chi insegue gli orizzonti / e gli orizzonti stessi che si spostano per noi» a indicarci un cammino in fondo al quale ritrovare «l’amore degli insorti / che solo noi sappiamo pronunciare».