Prima fu la «società dello spettacolo» immortalata alla fine degli anni sessanta dal filosofo francese Guy Debord. Poi venne lo «spettacolo politico» descritto dal politologo statunitense Murray Edelman già nel 1988. Ora siamo nella stagione della crisi della forma stessa della politica.

La vecchia televisione, al di là del suo peso reale nella formazione delle opinioni, ci offre un’idea piuttosto chiara della parabola in corso: la rappresentanza è scesa molto nella classifica dei desideri del consumo.

Infatti, i talk di qualche successo tendono da tempo a ibridare gli ospiti: la lunghezza infernale delle trasmissioni dipende anche dalla dilatazione del contenitore, riempito di protagonisti di ogni tipo (dalle diete, al cibo, alle cure estetiche), per offrire la politica in porzioni omeopatiche. Da Porta a porta in poi. Il relativo riequilibrio risponde alle suggestioni premonitrici sulla spettacolarizzazione del «politico». La società del’informazione ha fatto il resto.

Il successo dei social amplia a dismisura l’ordine degli addendi, ma non lo contraddice. Il risultato, comunque, c’è, oscillando l’agognato share tra il 5 e il 15 per cento.

Se passiamo, invece, alla Rai e al girone della politica-politica che nel servizio pubblico ha modalità canoniche, vale a dire la costruzione «pura» delle tribune, il quadro cambia sensibilmente. In peggio, per i 20 soggetti aventi diritto nella fase finale delle ultime elezioni politiche (17 nelle due settimane che vanno dall’indizione dei «comizi elettorali» alla presentazione delle liste).

Se si prendono in esame, infatti, i dati di ascolto di conferenze stampa, confronti e messaggi autogestiti, si va dallo 0,5 al 3 per cento, con un po’ di aumento per gli spazi rivolti agli italiani all’estero e per i messaggi autogestiti : si arriva al 4 per cento.

Più su le trasmissioni per le elezioni regionali, con una punta del 7 per cento per la conferenza stampa del governatore del Lazio Nicola Zingaretti del 21 febbraio scorso. Il presidente riconfermato vanta, dunque, il record assoluto: meno delle percentuali normalmente raggiunte dal celeberrimo fratello Luca, ma niente male.

Tuttavia, salvo l’evocata eccezione, il panorama è davvero modesto, al di là degli sforzi dello specifico servizio della Rai che se ne occupa.

Tralasciamo qui le buone performance de La7, la rete che più ha creduto nell’informazione ma in modo diverso. Il discorso riguarda il meccanismo classico del racconto della politica, che pare ormai non funzionare.

Non si possono resuscitare le gloriose tribune, pur senza pretendere di farle somigliare oggi a una storia iniziata nel 1961 con la voce inconfondibile di Jader Jacobelli e terminata – con quelle sembianze – lungo gli anni settanta? Non sembri un paradosso, ma proprio le leggi della politica-spettacolo hanno in sé anche la formula del loro rovesciamento.

Che spettacolo sia pure, dunque, ma curato con l’attenzione e gli investimenti che si dedicano ai format di successo.

Insomma, la narrazione politica divenga un genere vero e proprio, costruito con la voglia di far conoscere la cosa pubblica, il suo funzionamento, i peccati e le virtù. E potrebbe essere scelta una fascia oraria prossima ai telegiornali, preferibilmente nelle edizioni meridiane con repliche nella seconda serata.

PS: il contratto di servizio tra stato e Rai è in gazzetta ufficiale dal 7 marzo. Un’anonima manina ha cambiato la vocale finale dell’amministratore delegato, da una «o» a una «i» (Orfei). Che sia un qualche messaggio?