Non sarà la stessa cosa e di sicuro una sessantina/settantina di incontri digitali – seppure in diretta – non potranno scalzare la magia della parola dal vivo dei circa mille e quattrocento incontri che la 33/a edizione del Salone internazionale del libro di Torino aveva immaginato. Resta intatta, dunque, la speranza di poter proporre la fiera in autunno, ma al momento «non si sa quanto sarà largo il perimetro» per agire, spiega il direttore artistico Nicola Lagioia. L’attesa sembra essere l’unica strategia possibile. Intanto, il gruppo editoriale ha provato a reagire all’angoscia del vuoto e in una manciata di giorni ha messo su un Salone Extra, dal 14 al 17 maggio, raccogliendo adesioni entusiastiche (il programma è ancora in fieri). Con qualche sorpresa: autori inseguiti da anni, che avevano problemi nel raggiungere Torino, parleranno a chi vorrà ascoltarli comodamente seduti sul loro divano di casa, come Donna Haraway e Jared Diamond. D’altronde, l’illustratrice Mara Cerri, chiamata a disegnare il logo del Salone aveva riportato al centro dell’attenzione proprio una «realtà anfibia» con la sua figura così simile a quella che scatena desideri e passioni nel film La forma dell’acqua di Guillermo del Toro. Si riparte da qui, dagli strani tempi che stiamo vivendo.
Il 14 maggio l’esperimento in streaming lo inaugurerà un fuoriclasse del video e della «distanza», lo storico Alessandro Barbero, con un excursus sull’umanità che ha attraversato non poche catastrofi e la sua capacità di risollevarsi per ricominciare.

ll Salone si reinventa ai tempi della pandemia e in pochi giorni, per non saltare del tutto l’appuntamento consueto, sbarca in streaming. Ma gli incontri online possono, in qualche modo, sostituire una relazione interrotta? O la cultura ha bisogno di prossimità, anche fisica, per produrre idee?
L’online non sostituirà mai l’esperienza fisica. Siamo corpi. Siamo, tuttavia, anche corpi in trasformazione. Dalla ruota allo smarphone, siamo anche le nostre protesi. Non ci trasformiamo solo in ciò che prevede la selezione naturale, ma anche in quello che, volta per volta, inventiamo e immaginiamo. Da una parte c’è Darwin, d’accordo. Dall’altra, ci sono però Alan Turing, David Bowie e Donna Haraway. Prima ancora dell’online, James Ballard e David Cronenberg (e il padre di tutti loro, Philip K. Dick) avevano capito meglio di tutti che non di sola esperienza corporea avremmo vissuto nel XXI secolo. Del resto è così da qualche secolo: basti pensare ai romanzi epistolari, dove l’esperienza è sempre mediata (dallo spazio e dal tempo) e i corpi non si incontrano mai, ma generano emozioni ed esperienza. Basta rileggersi quel meraviglioso e perfido romanzo che è Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos per capire che tutto questo è vero sin dal XVIII secolo.

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Il tema scelto per l’edizione 2020 del Salone si è rivelato profetico. Eppure «Altre forme di vita» auspicava uno slittamento dell’umano a favore di altri abitanti del pianeta, mondo vegetale compreso. Il salto fra specie compiuto dal Covid non era previsto…
Altre forme di vita faceva in origine riferimento anche ai temi della sostenibilità, della biodiversità, del cambiamento climatico. Purtroppo tutto questo è collegato alla situazione dolorosa e complicatissima in cui ci troviamo ora. Mi riferisco al coronavirus. David Quammen (che sarà al Salone Extra), che aveva previsto tutto, sostiene che pandemie come quelle che stiamo subendo sono legate al nostro modello di sviluppo: la distruzione di interi ecosistemi spinge molti animali selvatici verso le zone urbane o più antropizzate, dunque anche più vicine a dove ci sono gli allevamenti intensivi, e questo facilita tremendamente lo «spillover» del virus, il salto di specie (ilmanifesto.it/david-quammen-questo-virus-e-piu-pericoloso-di-ebola-e-sars/). Coronavirus che non credo sia tanto un fantasma che emerge dal passato, ma un ambasciatore del futuro. Se dieci anni fa (sempre Quammen) chiedevi a cento virologi cosa sarebbe accaduto nel futuro, molti di loro tracciavano l’identikit di questo virus. E così oggi, se si interrogano cento climatologi sugli scenari possibili, almeno novanta di loro risponderebbero che il coronavirus, pur in tutta la sua drammaticità, è uno schiaffo meno violento di quello che potrebbe arrivarci in piena faccia se non cambiamo il nostro modello di sviluppo. Il climate change non è un’opinione. Così se da una parte viviamo nel cosiddetto antropocene, la prima età geologica in cui i principali cambiamenti sul pianeta sono dovuti all’opera dell’uomo, dall’altra è un’epoca ignota e turbolenta. Così mesi fa ci eravamo chiesti: «quali forme di vita dovremo immaginare per vivere in un futuro degno?» Ora, in un’altra forma di vita ci siamo dentro fino al collo. Un’altra cosa che mi ha sorpreso (a proposito di apparato percettivo) è la nostra totale incredulità rispetto a ciò che stava succedendo. È stato il contrario dell’11 settembre. Lì siamo stati aggrediti da qualcosa di totalmente inatteso. Intervistato da Errol Morris nel suo documentario The Unknown Known, quel personaggio ambiguo e inquietante che è Donald Rumsfeld (segretario della difesa sotto Bush) alla domanda: «perché non l’avevate previsto?», rispose: «abbiamo avuto un crollo di immaginazione».
Noi, al contrario, il coronavirus l’avevamo visto arrivare, dalla Cina, con settimane di anticipo. È come se quei due aerei si fossero avvicinati a noi al rallentatore. Eppure: non ci abbiamo creduto fino a quando non ci si sono schiantati addosso. Non abbiamo avuto un crollo di immaginazione, ma un eccesso di superstizione. E abbiamo creduto che il virus funzionasse non in base alla nostra fisiologia ma alla nostra antropologia. Che potesse arrestarlo il semplice carattere nazionale, che ogni popolo reputa superiore a quello oltreconfine.

Il settore dell’editoria (non solo le case editrici ma tutta la filiera, che comprende anche le librerie), è fra i più penalizzati dal confinamento. Il Salone in streaming può fornire un aiuto? E poi, novità sulla lettura: questo lockdown ha portato qualcosa di buono o dobbiamo continuare a soffrire, infilati sempre fra gli ultimi lettori d’Europa?
Il «Salone» fa quello che può, nelle condizioni in cui siamo. Cerchiamo di dare una mano, abbiamo creato intorno a noi una grande comunità, ma una fiera del libro di certo non può essere sufficiente. Il livello di lettura degli italiani è ancora molto basso. Bisognerebbe sostenere l’intera filiera con efficaci strumenti legislativi, e poi scuola e formazione (oserei dire pedagogia) e ancora scuola: la lettura inizia da lì.