Ci sono i segni del potere e c’è il potere dei segni. Il gesto di genuflessione di papa Francesco nei confronti del presidente del Sud Sudan Salva Kiir e del vice presidente Riek Machar rientra nel secondo tipo di casistica. Come racconta Monica Gaspari, volontaria nel piccolo villaggio di Cueibet, «la gente qui non parla d’altro».

SIA KIIR CHE MACHAR, i nemici giurati recentemente accolti in Vaticano per un «ritiro spirituale», non si sono rivelati all’altezza del proprio ruolo istituzionale da quando si sono affrontati in un conflitto armato che dal 2013 affligge il Paese. Le guerre hanno segnato costantemente la storia della regione a partire dal 1956, ma invece che contro un nemico esterno «oppressivo e colonizzatore» (il Nord Sudan), l’ultimo conflitto è stato tutto interno alle popolazioni del Sud, appena due anni dopo la tanto desiderata indipendenza dal Sudan, dando ragione al regime di al Bashir secondo il quale il Sud Sudan non aveva le capacità per essere indipendente. La classe dirigente del nuovo Stato si è rivelata una grande cleptocrazia che ha saputo solo trasferire denaro pubblico nei propri conti personali all’estero, ma in più è stata incapace di fare sintesi tra le varie istanze del Paese facendole deflagrare in una guerra fratricida.

Questo almeno fino allo scorso 12 settembre, quando è stato firmato l’ennesimo accordo di pace, che a differenza degli 11 precedenti sta effettivamente funzionando. Secondo osservatori nazionali e internazionali, gli scontri armati sono diminuiti significativamente e «dall’ultimo incontro, il cessate il fuoco permanente è in gran parte rispettato, mentre arrivano segnali incoraggianti di comunicazione e cooperazione tra le parti sul terreno» (dall’ultima relazione del Ctsamvm, l’organismo che controlla il cessate il fuoco).

Un po’ di tregua alla popolazione, che sta permettendo alla gente di muoversi in modo più sicuro all’interno del Paese (anche se occasionalmente si verificano imboscate armate). Gli effetti più evidenti si vedono nei mercati, meglio forniti e con i prezzi più bassi.

UNICA ECCEZIONE la regione dell’Equatoria. Qui sono state condotte operazioni congiunte tra l’esercito governativo e le forze alleate di Riek Machar contro i non firmatari dell’accordo di pace, in particolare le forze di Thomas Cirillo (National Salvation Front), anche con il sostegno delle forze ugandesi.

Questi ultimi giorni di aprile e poi il mese di maggio saranno mesi cruciali per la stabilità poiché, secondo l’accordo di pace, in questo periodo le forze armate di tutte le parti firmatarie dell’accordo dovrebbero essere unificate in un unico esercito nazionale. Inoltre, dovrebbe essere formato un governo di transizione per guidare il Paese verso le elezioni. Tuttavia, già alcuni membri del partito di Machar (In Opposition), chiedono di posticipare di sei mesi la formazione del governo, altri gruppi non sono soddisfatti dello scenario politico previsto nell’accordo e hanno proposte diverse: l’alleanza dei popoli, Nadafa (Alleanza nazionale per la democrazia e l’azione per la libertà) invita tutte le forze politiche dell’opposizione nel paese a unirsi per per porre fine all’impunità dell’Splm (Movimento di liberazione del popolo), riscrivere l’accordo di pace (R-Arcss) e non mettere le élite prima delle persone.

INTANTO LA RIATTIVAZIONE di diversi giacimenti petroliferi danneggiati durante la guerra sta avendo un impatto positivo in termini di miglioramento dei servizi ai cittadini. Potrebbe avere un impatto anche sul reddito nazionale, corruzione permettendo.

Il segno che questa volta tutti sperano, dovrebbe essere il rientro dei circa 2,1 milioni di sfollati interni e dei 2,5 milioni di rifugiati nei paesi confinanti. La situazione per Alan Boswell, ricercatore presso l’International Crisis Group, resta fragile, i passi sono ancora lenti e pieni di incertezze, ma «il ritardo è più ragionevole rispetto ad altre opzioni».