Che fare quando da decenni c’è la questione palestinese lì sul tavolo, sempre davanti ai nostri occhi, proclamata «incomprensibile», addirittura «irrisolvibile», dai potenti e media mainstream? La risposta il linguista e filosofo statunitense Noam Chomsky e lo storico e docente universitario israeliano Ilan Pappè, autori di Palestina e Israele: che fare? (Fazi editore, a cura di Frank Barat con traduzione di Michele Zurlo), l’hanno già data in questi ultimi anni, con libri e articoli pubblicati da riviste e giornali internazionali. Tuttavia in questo volume, naturale continuazione del dialogo tra i due cominciato cinque anni fa in Ultima fermata Gaza, Chomsky e Pappé si danno un obiettivo che ritengono improrogabile, ossia fare chiarezza ed eliminare quelle espressioni vuote e buoniste che avvolgono e intrappolano il dibattito sulla questione palestinese.
Espressioni abusate e ripetute da capi di stato e di governo e dai ministri durante le visite rituali nella regione. Come «processo di pace», «soluzione dei due popoli per due Stati», «fermare la violenza da ambo le parti», amate anche da una certa sinistra italiana ed europea per aggirare il tema vero: la negazione che dura da decenni del diritto del popolo palestinese alla libertà e alla dignità.

Proseguire il dibattito su queste basi, prive di senso se si guarda a quanto avviene sul terreno, a cominciare dall’incessante processo di colonizzazione israeliana dei Territori palestinesi occupati, significa condannare a un lento e inesorabile oblio il popolo palestinese e «legalizzare» un sistema di dominio. Occorre innanzitutto superare l’ipocrisia del lessico politico. C’è bisogno di «un nuovo discorso che analizzi la realtà invece di ignorarla», scrive Pappé, «se si vuole superare la paralisi concettuale impostaci dalla soluzione a due Stati, chiunque sia nelle condizioni di farlo – a qualsiasi livello – dovrebbe proporre una struttura politica, ideologica, costituzionale e socioeconomica che valga per tutti gli abitanti della Palestina, non solo dello Stato di Israele». Si deve demolire l’egemonia retorica, quel vocabolario dell’ortodossia pacifista che ci impedisce di chiamare le cose con il loro nome e che mira a mostrarle in mostrarle in forme diverse.

«Le vecchie e le nuove conversazioni» di Ilan Pappé fissano le finalità della «missione», con l’intento, scrive lo storico israeliano, di «trovare nuove idee e un nuovo linguaggio sulla Palestina» per superare una crisi che dura da tempo, caratterizzata «dall’incapacità di tradurre le grandi conquiste raggiunte al di fuori della Palestina, in particolare il cambiamento operato sull’opinione pubblica mondiale, in concreti passi avanti sul territorio». Pappé denuncia i paradossi di una situazione che vede una crescente consapevolezza nell’opinione pubblica internazionale delle politiche dello Stato di Israele nei riguardi dei palestinesi sotto occupazione e persino dei suoi cittadini arabi, che si affianca a un atteggiamento di governi e parlamenti, e dei mezzi d’informazione, pronti ad etichettare come antisemitismo qualsiasi critica del sionismo, anche delle sue manifestazioni più estreme.

Per queste ragioni, scrive Pappé, è fondamentale modificare il «vocabolario» vecchio con quello nuovo aderente alla realtà palestinese riconosciuta dal movimento anti-apartheid mondiale e dal Bsd (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni nei confronti di Israele). È giusto perciò parlare di colonialismo e non di sionismo (che più avanti nel libro Noam Chomsky definisce una «religione di Stato») perché chiarisce la natura delle politiche verso i palestinesi in Israele e in Cisgiordania e perché elimina la sbandierata «complessità» del conflitto che ha lo scopo di confondere le idee. Pappè chiede che Israele sia definito uno Stato segregazionista e non uno Stato Ebraico, perché discrimina al suo interno e nei Territori occupati in base all’etnia e alla fede religiosa. E che la parola «decolonizzazione» prenda il posto di «processo di pace», uno strumento che permette a Israele di guadagnare tempo ed espandere le sue colonie grazie anche alla produzione incessante di quella fabbrica della «coesistenza» alimentata da Usa e Unione europea. In questo processo di delucidazione non si può fare a meno di mettere un po’ da parte anche la parola nakba («catastrofe», usata da palestinesi e arabi per descrivere quanto è accaduto nel 1948 con la nascita di Israele) per usare invece «pulizia etnica» e individuare così la vittima e l’aggressore, riprendendo a parlare del «diritto al ritorno» per i profughi palestinesi. Diritto sancito da una risoluzione dell’Onu (la 194) ma respinto dall’ortodossia pacifista in nome della «soluzione possibile», i due Stati, che si è dimostrata impraticabile.

Nakba, pulizia etnica, il 1948, dunque la storia. Su questo, nei «Dialoghi» sul «passato», Noam Chomsky centra un punto fondamentale rispondendo alla domanda di Frank Barat sull’importanza del passato per capire il presente e sui tanti che chiedono ai palestinesi di dimenticare il 1948. «Succede sempre così – spiega il linguista americano – È tipico dei potenti dire: ’Lasciate perdere, ripartiamo da qui che poi in realtà significa: ho avuto ciò che volevo, tu lascia perdere i tuoi interessi. Tanto mi prendo ciò che voglio’. Vale anche per la questione palestinese. Lasciarsi alle spalle il passato significa tralasciare il futuro, perché il passato contiene aspirazioni e speranze, alcune del tutto condivisibili, che possono essere perseguite nel futuro se opportunamente alimentate. Alla fine è come dire: ’Lasciamo perdere le speranze e le aspirazioni, perché abbiamo già ottenuto ciò che volevamo’».

I dialoghi sul «presente» affrontano anche il tema del ruolo dell’attivismo internazionale. Chomsky chiede a chi difende i palestinesi di domandarsi sempre «cosa farà bene alle persone che si vogliono aiutare e non che cosa fa sentire meglio noi», non per pragmatismo ma per un atteggiamento etico. Da parte sua, Pappé invoca un «giusto equilibrio tra posizioni etiche e azioni concrete». Non sempre è facile ricorrere a questa strategia, afferma Pappé, «come ben sanno quelli del movimento Bds… la loro attività può rivelarsi molto efficace quando si concentra sui crimini compiuti in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza; ma l’obiettivo del movimento è anche quello di coinvolgere le persone ragionevoli di tutto il mondo, che non vogliono sostenere soltanto un gruppo specifico ma combattere l’oppressione e la violazione dei diritti umani e civili ovunque essi si verifichino, e individuarne la radice».

Le posizioni di Chomsky e Pappé più o meno coincidenti su gran parte temi affrontati dalle domande di Frank Barat, divergono sullo Stato unico per ebrei e palestinesi. Per lo storico israeliano questa entità statuale unica di fatto già esiste e occorre modificarne radicalmente la struttura e la sua natura. Per il linguista americano ora è meglio orientarsi sui due Stati per ragioni di consenso, per arrivare dopo all’unico Stato. Notevoli le «riflessioni» dei due studiosi, nella seconda parte del volume, per la comprensione della questione palestinese nel 2015, in continuità con quanto avvenuto prima e dopo il 1948.