L’influenza aviaria sta dilagando negli allevamenti italiani. Dopo due mesi dalla comparsa della malattia sono quasi 9 milioni gli animali abbattuti (tacchini, polli da carne, galline ovaiole) nel tentativo di contenere la diffusione del virus H5N1 responsabile dell’epidemia. Le situazioni più gravi si registrano in Veneto, nelle province di Verona e Padova, e in Lombardia, province di Brescia e Mantova. Sono queste le aree a maggior concentrazione del pollame allevato in Italia. I primi focolai si sono manifestati a inizio ottobre in alcuni allevamenti di tacchini, animali molto sensibili al contagio, per poi estendersi a polli e galline. A metà ottobre il virus ha fatto il suo esordio in un allevamento della provincia di Ferrara dove erano presenti 38 mila tacchini, contagiandone l’80%. Anche nella provincia di Verona, che è quella più colpita, il contagio si è manifestato in un allevamento di 13 mila tacchini. Nel Lazio l’epidemia ha colpito un allevamento con 250 galline ovaiole. Nella regione non si segnalano altri focolai, anche se la morte di un cigno a Villa Pamphili per influenza aviaria preoccupa le autorità sanitarie.

I DATI FORNITI IN QUESTI GIORNI dall’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie, che è il centro di referenza nazionale dell’influenza aviaria, indicano che sul nostro territorio sono presenti 260 focolai tra gli allevamenti industriali, mentre 13 focolai interessano i volatili selvatici. L’epidemia di aviaria, che era stata segnalata in Russia nel mese di luglio, si è poi diffusa in Ucraina, Polonia e centro Europa. Attualmente tutti i paesi europei sono coinvolti, ma la situazione più preoccupante è quella italiana perché dei 485 focolai segnalati in Europa ben 273 riguardano l’Italia. Quando si individua un focolaio scattano le procedure che portano all’abbattimento di tutti gli animali presenti nella struttura, senza distinzione tra sani e malati.

LA PRATICA DELL’ABBATTIMENTO DI MASSA è la «soluzione», ma è la conseguenza del sistema di allevamento intensivo dove decine di migliaia di animali vivono in stretto contatto e il contagio avviene con grande rapidità. Il Ministero della salute ha emanato in queste settimane numerose ordinanze per indicare le misure necessarie a controllare l’epidemia. Quello dell’influenza aviaria è un virus di tipo A ad elevata patogenicità ed è rimasto confinato per decenni tra gli uccelli acquatici. Sono soprattutto le anatre selvatiche a costituire la riserva naturale dei diversi sottotipi dell’influenza aviaria. Anche oche e cigni possono ospitare il virus, ma i volatili selvatici raramente contraggono la malattia e quando avviene si manifesta in forma lieve. Gli uccelli migratori che rimangono contagiati favoriscono la circolazione nelle diverse aree del pianeta, ma fino a 50 anni fa le epidemie di influenza aviaria erano controllabili più facilmente perché era minore la concentrazione degli animali allevati.

LO SVILUPPO DEGLI ALLEVAMENTI intensivi ha creato le condizioni favorevoli per la diffusione del virus in tutto il mondo, con la comparsa di nuove varianti più aggressive. Sono almeno 15 i sottotipi di virus influenzali di tipo A che contagiano gli uccelli. Si tratta di virus instabili che vanno incontro a numerose mutazioni durante la replicazione del Dna. La denominazione del virus dipende dal tipo di proteina (da N1 a N9) presente sulla sua superficie. Da questa combinazione proteina-acido nucleico deriva l’indicazione del virus (H5N1, H5N2, H7N2, H7N9, ecc.).

IL SOTTOTIPO H5N1, CHE STA COLPENDO gli allevamenti italiani, è quello a maggiore letalità, arrivando a causare la morte del 100% degli animali. In questi anni la comparsa di nuovi varianti di H5N1 hanno accentuato la sua contagiosità e letalità. Le ondate epidemiche di influenza aviaria si stanno succedendo in tempi sempre più ravvicinati, determinando una emergenza sanitaria permanente.

SIAMO DI FRONTE A UN VIRUS GLOBALE che a partire dal 2000 è diventato endemico, insediandosi stabilmente negli allevamenti avicoli di Asia, Medio Oriente, Europa, Africa e che può contagiare tutte le specie di uccelli. Nel 2003 una estesa epidemia di influenza aviaria ha colpito il sud-est asiatico, portando all’abbattimento di oltre 100 milioni di polli. Nel 1997 si è registrato ad Hong Kong il primo caso documentato di passaggio del virus dal pollame all’uomo, con 18 persone colpite da sindrome respiratoria acuta e 6 morti. Anche in Olanda nel 2003, nel corso di una epidemia di aviaria rimasero contagiate 83 persone con la morte di un veterinario.

NEGLI ULTIMI 20 ANNI L’OMS ha registrato 862 casi di influenza aviaria nell’uomo dovuta al virus H5N1 con 455 morti. Le persone colpite avevano operato in stretto contatto con gli animali e il virus aveva trovato le condizioni favorevoli per il salto di specie. Per fortuna non si è mai verificata la mutazione più temuta, l’acquisizione di geni umani da parte del virus dell’aviaria, che avrebbe consentito il passaggio da una persona all’altra del ceppo virale. Ma il virus H5N1 è sempre stato un osservato speciale. I piani pandemici nazionali varati negli ultimi 20 anni su indicazione dell’Oms sono stati predisposti rivolgendo a questo virus una particolare attenzione, considerato potenzialmente pericoloso per le sue caratteristiche e in grado di innescare una pandemia umana. Poi è arrivato il coronavirus a determinare una crisi sanitaria e sociale che si fa fatica a controllare.

LA GESTIONE DEGLI ALLEVAMENTI rimane, tuttavia, un problema di drammatica attualità. Un sistema alimentare non può basarsi sullo sfruttamento degli animali e il benessere animale non è compatibile con gli attuali sistemi di allevamento. Secondo i dati forniti da Ismea, l’Italia con 1,4 milioni di tonnellate è il quarto produttore di carni avicole nell’Unione Europea dopo Polonia, Germania e Francia. Sono circa 18 mila gli allevamenti avicoli nel nostro paese, di cui 6 mila di tipo industriale dove si concentra il 70% dei polli da carne, tacchini e ovaiole. Il Veneto è la prima regione per produzione di carni bianche con il 41% del totale, seguito da Lombardia ed Emilia Romagna. Sono numeri che vengono sbandierati per dimostrare la capacità produttiva e l’autosufficienza del settore avicolo. Ma gli animali non se la passano bene.

QUALCHE SETTIMANA PRIMA che scoppiasse l’epidemia, la Lega Anti Vivisezione (Lav) in una video-inchiesta aveva documentato le condizioni di vita in due allevamenti di galline ovaiole in provincia di Mantova e Brescia. In una struttura erano presenti 700 mila galline allevate a terra, mentre nell’altra erano 200 mila gli animali concentrati nelle gabbie. Un sistema alimentare non può basarsi sullo sfruttamento degli animali e gli attuali sistemi di allevamento non sono compatibili con il loro benessere. Gli allevamenti intensivi non possono essere luoghi di sofferenza per gli animali e ambienti in cui si sviluppano epidemie che rappresentano una minaccia per la salute umana.