Il senso di straniamento è stato duplice. Non solo una guerra fra stati sovrani nel cuore dell’Europa e l’esplodere di una crisi umanitaria ed economica, proprio mentre sembrava in via di superamento una tragedia.

Una tragedia che avrebbe dovuto insegnare all’umanità a federarsi contro il “comun fato” piuttosto che dividersi per volontà di potenza, nazionalismo e sfruttamento di classe; ma anche il precipitare in una bolla mediatica ispirata ad una narrazione propagandistica della guerra che – rispetto a quella di una sempre più conclamata dittatura russa – conserva tanti spazi di discussione e democrazia e tuttavia non è senza venature inquietanti, manifestandosi anzi come un potere imposto attraverso la libertà.

Quando un secolo fa i tamburi della Grande Guerra presero a rullare, si sviluppò nei paesi alleati una martellante pubblicistica germanofoba, volta a criminalizzare la cultura tedesca decretandone l’inferiorità. Questo clima spinse poi i Romaine Rolland e i Julien Benda a invitare gli intellettuali a non tradire la loro missione e a porsi al di sopra della mischia. Forse non tutti sanno che buona parte della storia dell’antisemitismo trae origine all’unisono con la tedescofobia, dato che la cultura tedesca era piena di figure di origine ebraica.

L’Italia fece tutt’altro che eccezione, attingendo peraltro a un archetipo nazionale che dalle lotte comunali contro il Barbarossa arrivava al Risorgimento, nonostante il “ripassate l’Alpi e tornerem fratelli”. Ne ha parlato anche Paolo Favilli sul manifesto, insistendo sul ruolo di Gabriele D’Annunzio. Le pagine sulla guerra di Benedetto Croce, che per altri versi documentano la sua fase di massima torsione conservatrice, elevarono una dura protesta sulla contaminazione nazionalistica fra il conflitto politico e quello di civiltà, che legittimava la guerra con la criminalizzazione del nemico e della sua cultura. Croce stesso per le sue note fu accusato di filo-germanesimo e di intesa con il nemico: oggi sarebbe tacciato di “filo-putinismo”.

Il giovane Antonio Gramsci si ispirò a questa lezione, rideclinandola in una chiave internazionalista. Negava, come Croce, che la guerra fosse un “conflitto di civiltà” fra latinità e germanesimo. Inoltre, come Croce, rifiutava che si potessero giustificare le guerre con principii astratti: tipo democrazia contro autoritarismo. Le guerre fra stati-nazione son sempre legate ad interessi di potenza ed economici. Gramsci invitava gli italiani ad abbandonare il sentimentalismo nazionalistico legato alle sorti dei soldati italiani nelle trincee per gettare uno sguardo più alto sulle cause e le ragioni del conflitto in generale, estranee agli interessi delle classi subalterne.

Diversamente quindi da Croce, per cui bisognava comunque sostenere il proprio paese in guerra, per Gramsci i socialisti non dovevano collaborare con il massacro voluto dalla borghesia e che il Papa aveva stigmatizzato per la sua inutilità. Dopo la pace, non trionfò la democrazia. La Germania, umiliata dai trattati, partorì i mostri del nazismo e l’Italia fu laboratorio globale del fascismo. Quest’ultimo ebbe forse come anticipazione inaugurale proprio l’entrata in guerra nel 1915, imposta al paese riluttante da un parlamento dominato da un corto circuito di interventismo democratico e nazionalismo imperialistico (molto dell’antifascismo popolare affonda qui le sue radici e l’Anpi oggi ne sta rinnovando coraggiosamente lo spirito).

Come non pensare a tutto ciò oggi, in cui i sondaggi indicano che la maggioranza degli italiani è contraria a inviare armi all’esercito ucraino, ad aumentare le spese militari e ad allineare acriticamente la politica estera europea a quella americana, mentre il governo e il parlamento sembrano invece andare dritti per la loro strada, allineandosi alle direttive degli Stati Uniti?

Come non pensarci, se su un notiziario Rai in prima serata, in uno dei suoi servizi sempre più kitsch, vengono enumerati i valori positivi espressi dalla resistenza ucraina fra cui il “nazionalismo”, che nel lessico politico italiano è, dal 1945, un termine assiologicamente negativo in quanto associato ad una visione politica incentrata sulla superiorità dell’idea di nazione rispetto a tutti gli altri valori? Lo stesso termine che peraltro viene utilizzato dai giornalisti mainstream per definire l’ideologia della brigata Azov, in modo da mascherarne la forte componente neo-nazista.

E che dire di quell’altro servizio in cui si intervistava una foreign fighter italiana in Ucraina (dopo anni di silenzio sui combattenti in Rojava, anzi processati al loro ritorno in patria) chiamata a commentare la morte di un suo omologo filo-russo? La ragazza risponde: “affari suoi”. Dal suo punto di vista, comprensibilissimo. Meno invece da quello di un servizio pubblico che dovrebbe soprattutto promuovere il valore della vita umana.