Da un paio di giorni sui canali YouTube di Quelin Blackwell, influencer afroamericana con milioni di follower, c’è un video in cui la ragazza visita un hub Amazon mostrando le meraviglie della tecnologia della logistica e scambia opinioni con lavoratori felici. La ragazza è entrata a filmare in un magazzino invitata dall’impresa, un’operazione simpatia un po’ Truman Show e un po’ propaganda sovietica. Il gigante dell’ecommerce ricorre a ogni strumento possibile pur di convincere i suoi dipendenti a non reclamare diritti.

Da due settimane e fino al 29 marzo i seimila dipendenti dell’hub di Bessemer, Alabama, votano per posta per decidere se formare o meno un sindacato. Dovranno votare con più del 50% perché l’Alabama guidato dai repubblicani è tra i 25 Stati che hanno approvato una legge «Right-to-work», diritto a lavorare: sembra una cosa buona e invece limita la possibilità del sindacato di organizzare il lavoro. Dove sono in vigore queste leggi il numero di iscritti alle Unions scende e i salari sono più bassi.

Il 2020 è stata una gallina dalle uova d’oro per Amazon: il volume d’affari, già in ascesa, è stato spinto in alto dai lockdown, determinando un quasi raddoppio degli utili. Eppure ogni tentativo di organizzare il lavoro è stato stroncato alla radice. Un anno fa due lavoratori che avevano protestato per la mancanza di precauzioni prese in seguito all’esplosione dell’epidemia erano stati licenziati a New York e Minneapolis, con loro due impiegati del quartier generale di Seattle rei di aver solidarizzato.

Al 1° ottobre scorso i dipendenti positivi erano 20mila. Quelli di Amazon sono tra coloro che nel 2020 abbiamo imparato a chiamare lavoratori indispensabili e hanno continuato a presentarsi ai capannoni per tutta l’emergenza sanitaria, i loro turni allungati, gli obbiettivi di produttività alzati.
In cambio c’è il salario a 15 dollari l’ora che altre categorie ancora sognano.

Ma il punto è un altro: «Pensavo che più grande l’impresa, più benefit e garanzie avrei avuto» dice Essimae Skinner in un video postato dalla «Retail, Wholesale and Department Store Union» il sindacato che conduce la battaglia per la sindacalizzazione a Bessemer, «invece ci fanno male le giunture e sudiamo come giocatori di football, ma senza i loro stipendi».

Come ovunque negli Usa i lavoratori essenziali appartengono soprattutto alle minoranze: metà dei dipendenti di Amazon è afroamericana o ispanica, mentre tra i manager sono il 20%. Anche per questo qui è venuta una carovana di Black Lives Matter e qui ieri sera ha tenuto un sermone il reverendo William J. Barber II, che guida la Poor People’s Campaign, la cosa più simile alle campagne per i diritti civili, sociali ed economici degli anni ’60 che si agiti oggi negli States. Vada come vada c’è, attorno a questa battaglia, la sensazione che sia un passaggio importante.
Amazon non nasconde il suo fastidio per il sindacato: i video di formazione ai manager dei capannoni in cui ci si affanna a rispettare i tempi sono espliciti.

«Ad Amazon valorizziamo il rapporto diretto con i dipendenti e questa connessione è il miglior modo per rispondere ai loro bisogni e sostenere l’innovazione e la flessibilità che sono la chiave del nostro successo. I sindacati sono una minaccia a questa relazione diretta». Più chiaro di così è difficile.

La novità del 2021 è la maggioranza in Congresso. Il presidente Biden ha registrato un messaggio video nel quale non si spinge a dare indicazioni di voto, ma ci va vicino: «Se in un luogo di lavoro ci deve essere il sindacato lo decidono i lavoratori, non i supervisori». Parallelamente la Camera ha approvato un testo che eliminerebbe scappatoie che aiutano a tenere fuori i sindacati dai luoghi di lavoro. Far passare la legge al Senato sarà complicato, ma una spinta a favore della sindacalizzazione c’è anche a Washington.