«Le nazioni europee sono ammalate, la stessa Europa, si dice, è in crisi»: così Edmund Husserl apre la famosa conferenza di Vienna nel 1935 (tradotta nella Crisi delle scienze europee, Il Saggiatore 1968). La data basta a capire a quali malattie e a quali crisi si riferisse il filosofo tedesco; ma la domanda che segue illumina l’attualità bruciante di questa constatazione, nonostante i mutamenti radicali intervenuti da allora: perché mentre c’è una medicina per la vita biologica – si chiede Husserl – non c’è una medicina per la vita «dello spirito»? Oggi, alla pandemia si aggiunge la minaccia all’unico progetto politico innovativo che gli europei siano riusciti ad abbozzare nel dopoguerra, quello di una Federazione degli Stati Uniti d’Europa. E ci riporta alla domanda: cos’è la vita dello spirito, per la quale manca la medicina? E perché manca? Il confronto con la medicina per i corpi è fondamentale per capirlo.

LA CLINICA non è una praticaccia empirica: si basa sulla ricerca scientifica, in particolare sulla biologia. Ma la clinica, appunto, non potrebbe fondarsi sulla conoscenza dei fatti che la ricerca le offre senza un supplemento di conoscenza, questa volta non dei fatti ma dei valori. Perché la salute è un valore, il più fondamentale dei valori vitali. Cosa sia salute e cosa sia malattia non lo si può dire senza l’apporto di entrambi i tipi di conoscenza, dei fatti e dei valori.
Come stanno le cose con la vita «dello spirito»? La vita dello spirito è la vita delle persone. E vivere una vita personale significa «vivere in quanto io e in quanto noi, accomunati da un orizzonte comune», cioè entro comunità come «la famiglia, la nazione e la sovranazione». Se una medicina manca, è perché manca la conoscenza di base. La vita delle nazioni e delle «sovranazioni» deve diventare oggetto delle scienze sociali (non ultime le scienze politiche) – ma evidentemente anche della conoscenza e della ricerca sui valori corrispondenti. Cominciamo dalla nazione, che sta a cuore ai sovranisti, ma che è anche la base della «sovranazione».

NEL SAGGIO Rinnovamento, il primo degli scritti pubblicati su una rivista giapponese dall’omonimo nome nel ’23 (tradotti in italiano come L’idea d’Europa, Cortina 2000), Husserl scrive: «Una nazione, un’umanità, vive e opera nella pienezza delle forze soltanto se sorretta nel suo slancio da una fede in sé stessa e nella bellezza e bontà della vita della propria cultura; se dunque non si limita a vivere, ma… a realizzare valori genuini e sempre più elevati». Cooperare a una tale cultura, scrive Husserl, «rappresenta la felicità di ogni uomo operoso e lo solleva dalle preoccupazioni e dalle sventure individuali».

Husserl ha letto avidamente Lévy-Bruhl, e la definizione di «cultura» che troviamo in questo stesso saggio deriva dalle scienze sociali che erano allora nella loro prima fioritura, l’antropologia culturale e la sociologia. Cultura è consapevolezza dei vincoli fattuali e normativi, economici, giuridici, costituzionali, etici, ecologici, estetici, linguistici e logici, all’interno dei quali soltanto la libertà, la novità, la personalità di ognuno possono fiorire. Cultura è il sapere, per dirla con Durkheim, come «il noi viva in me», o in quali delicate e complesse relazioni di interdipendenza la società viva e agisca in ciascuno di noi, perché la cooperazione non solo sia possibile, ma soprattutto renda possibile a ciascuno lo sviluppo di una vera personalità individuale e indipendente, di una vera autonomia morale e di vere libere vocazioni.

UNA NAZIONE è «sana» solo se l’attività di ciascuno è vissuta, proprio nella sua specializzazione e differenza, anche nella consapevolezza della sua interdipendenza vitale da quella di ogni altro. È la cultura, dunque, a consentire a una società anche il lusso di disaccordi che sanno come non degenerare in discordia civile: a consentire un vero pluralismo delle visioni del mondo e dei progetti di società, della bellezza e del bene, entro i vincoli di una democrazia.
Anche i filosofi, sembra, non hanno sempre appreso questa lezione. Quanti hanno visto con chiarezza la distanza abissale che c’è fra la comunità radicata nelle identità di appartenenza, in cui ogni testa è la replica di ogni altra, e quella radicata nell’intreccio funzionale delle attività personali, fatta – scrive Husserl – di «molte (diverse) teste, legate però fra loro»?

SONO DUE MODI antitetici di «vivere in quanto noi, accomunati da un orizzonte comune». Il primo è al massimo quando la personalità, l’autonomia morale, l’iniziativa individuale, la specializzazione professionale sono a zero, e la coscienza collettiva è tutto. L’uniformità del pensare e dell’agire è massima, e massima è la coesione, la religio, il sacro. Essere diverso è sacrilegio, e l’individuo che lo perpetra merita il sacrificio. Il secondo invece cresce con il livello di consapevolezza che ciascuno ha dell’interdipendenza delle funzioni e degli atti propri e di tutti gli altri, cioè con la cultura di ciascuno. In questo «noi», la pressione sociale sulla coscienza individuale può essere ridotta al minimo, e l’individuazione delle persone è al massimo: eppure può essere al massimo anche la solidarietà. Non come spirito di corpo, ma come corpi dello spirito: le istituzioni e le norme, gli obblighi e i diritti, i poteri e le forze che le volontà possono attivare. Perché ciascuno conservi la dignità che gli spetta come persona unica, diversa da ogni altra, irripetibile.

DIETRO HUSSERL e Lévy-Bruhl occhieggia Durkheim e la sua contrapposizione fra la solidarietà di tipo tribale, il noi da cui l’individuo ancora non è emerso, e quella delle società moderne, basata sull’autonomia morale e vocazionale degli individui, che è direttamente proporzionale all’interdipendenza funzionale delle loro vite.

È questo, credo, lo sfondo di una lettera che Spinelli scrisse a Wilhelm Röpke (più tardi ispiratore di Konrad Adenauer) il 24 novembre 1943: «Quando sono andato in prigione io ero un marxista ortodosso, pieno di fervore e intolleranza (…) In prigione ho avuto modo di studiare, di riflettere, di guardare con un certo distacco le cose degli uomini. Gli studi storici e gli avvenimenti contemporanei dell’Italia, della Germania, della Russia mi hanno fatto comprendere che vi era nella nostra civiltà qualcosa di molto importante che minacciava di crollare e che bisognava, al contrario, difendere e salvare a tutti i costi: quella che lei ha chiamato la Persönlichkheitszivilisation».

LA CIVILTÀ DELLE PERSONE: Spinelli la pensò come un salto ulteriore nel processo di individuazione dello «spirito», che sul residuo etnico dei vincoli sociali – la nazione – facesse prevalere una regolazione delle libere vite, e insieme una moltiplicazione delle opportunità loro offerte, proporzionata al livello sovranazionale dell’interdipendenza, non solo economica. Che accrescesse oltre i limiti della propria nazione la sovranità politica dei cittadini. Una democrazia veramente sovranazionale, appunto, con tutte le sue istituzioni – a partire dall’unione fiscale. Ecco la sola «solidarietà» che avrà senso accrescere fra le nazioni, se la «sovranazione Europa» deve esistere. Ma torneranno fra noi, dei leader dalla veduta più lunga di una spanna?