Le guerre di religione del «secolo di ferro», ha notato Foucault, hanno fatto versare più sangue delle lotte di classe nell’età industriale: forse è la ferocia del contesto a spiegare perché, per nominare il riconoscimento di un diritto fondamentale dell’età moderna come la libertà di coscienza, sia stata usata una parola, «tolleranza», che implica l’idea di sopportazione.
Sebbene nel lungo medioevo non siano mancate voci isolate a favore della tolleranza, in Occidente essa si è fatta strada, lentamente e fra mille ostacoli, proprio nel XVII secolo, una età dominata da violenti conflitti religiosi interni alla tradizione cristiana, quando chi dissentiva dall’ortodossia era agli occhi del credente un traditore della parola di Dio: già Tommaso d’Aquino aveva distinto il pagano, da convertire con dolcezza poiché non ha avuto la possibilità di conoscere la rivelazione, dall’eretico, colpevole di averla falsificata e che quindi merita la morte, come e più dei falsari, giustiziati in base alla legge civile anche se si limitano a contraffare del denaro.

Convivenze di culti diversi
A questa distinzione si sarebbe mantenuta fedele la chiesa, almeno teoricamente (di fatto non furono certo irenici i rapporti con l’Ebraismo, con l’Islam e, più tardi, con le religioni del Nuovo Mondo e dell’Africa nera), fino a quando, con la Riforma vincente in vaste aree europee e senza che fosse più possibile soffocare nel sangue le eresie, com’era avvenuto nel medioevo, si pose il problema della convivenza all’interno dello stesso orizzonte cristiano di culti fra loro ostili.

Anche le chiese riformate, nate contestando l’autorità papale, presto si sarebbero rivelate altrettanto intolleranti nei confronti della rispettive dissidenze. La situazione era inoltre ovviamente complicata dai nessi evidenti con le vicende politiche che portarono in tutta Europa alla formazione del moderno stato assoluto.

Tra gli apostoli della tolleranza in quegli anni difficili, accanto a grandi filosofi come Locke e Spinoza, un posto di assoluto rilievo spetta a Pierre Bayle, allora molto noto e oggi relativamente poco conosciuto, il cui ruolo fu cruciale in quel processo di transizione verso l’Illuminismo, tra il XVII e il XVIII secolo, che Paul Hazard definì felicemente «la crisi della coscienza europea».
Nato a Le Carla, paesetto ai piedi dei Pirenei, figlio di un ministro di culto, Bayle studiò prima nell’Accademia ugonotta di Puylaurens, poi – nel 1669 – si convertì al cattolicesimo ed entrò nel Collegio gesuitico di Tolosa, dove – come ebbe a dire più tardi – si impadronì di quelle sottigliezze scolastiche che gli sarebbero servite come strumento delle sue battaglie ideali. Tornato nel 1671 alla fede avita, continuò gli studi a Ginevra e, dal 1675, insegnò filosofia nell’Accademia protestante di Sedan; quando questa, nel quadro dell’offensiva condotta da Luigi XIV contro gli ugonotti, venne soppressa, nel 1681 Bayle si rifugiò, come molti altri correligionari, nei Paesi Bassi, sistemandosi a Rotterdam, dove venne chiamato a insegnare nella Scuola Illustre.

Elogio dell’ateo virtuoso
L’anno seguente pubblicò il suo primo libro importante, quei Pensieri sulla cometa (la grande cometa del 1680) in cui non si limita ad attaccare le superstizioni e i pregiudizi, ma enuncia tesi scandalosamente audaci, come l’esistenza di «atei virtuosi» (esemplare il caso di Spinoza, morto nel 1670, circondato dalla fama di ateo, ma di costumi davvero evangelici) e la possibilità di una società di atei, ciò che implica l’ammissione di una morale indipendente dalla religione.
Accolto da un immediato successo in tutta Europa, questo testo venne criticato dall’ala ortodossa degli stessi rifugiati, schierata a favore del partito orangista e filo-monarchico, ancora più irritati quando Bayle, nel 1686-87, reagendo alla revoca dell’editto di Nantes (che provocò tra l’altro la morte in carcere del fratello maggiore Jacob), pubblicò il Commentario filosofico sulle parole di Gesù Cristo «costringili a entrare», ora tradotto, introdotto e annotato da Stefano Brogi con il titolo Commentario filosofico sulla tolleranza (Einaudi, pp. 850, € 90,00), prima edizione integrale moderna, che comprende anche l’importante Supplemento pubblicato nel 1688).

Le parole cui si riferisce il titolo originale sono quelle della parabola di Luca (14, 15-24), in cui un padrone che ha allestito un grande convito, disertato però dagli invitati di riguardo, ordina al servo di raccogliere i passanti e di costringerli ad entrare (compelle intrare) in casa: facendo leva su quel compelle (anánkason in greco), la chiesa, a partire da Agostino, aveva sostenuto la liceità dell’uso della forza per indurre gli eretici a rientrare nell’ortodossia, giustificazione impiegata anche per le persecuzioni anti-ugonotte. Una interpretazione, afferma Bayle, inaccettabile perché sarebbe in contraddizione con quanto la ragione che Dio ci ha dato è in grado di comprendere: come non sarebbe possibile un’esegesi del testo sacro secondo la quale una parte è maggiore del tutto o due più due non fanno quattro, così è aberrante una interpretazione del passo evangelico che contraddica quella evidenza per cui nessuno deve fare al prossimo ciò che non vorrebbe subire. Un vero cristiano non può negare a seguaci di altre fedi quella tolleranza che i primi cristiani, per esempio per bocca di Tertulliano, giustamente rivendicavano nei confronti delle persecuzioni imperiali. In realtà chiunque serva Dio in buona fede, senza venire meno al rispetto dovuto al prossimo e alle leggi civili, ha tutto il diritto di praticare e di diffondere la sua fede ed è presumibile che verrà accolto nel regno dei cieli. Ma una tale libertà di culto dovrebbe essere estesa anche agli atei? Nel Commentario, a differenza che in altri scritti, Bayle lo nega, anche se Brogi, nell’introduzione, prova a risolvere questa apparente contraddizione.

Tra perizia e leggerezza
Ciò che ha indubbiamente contribuito alla obsolescenza dei testi di Bayle è la loro fluvialità, e anche gli enciclopedisti, che pure tanto gli dovevano, ne deprecavano l’erudizione un po’ pedantesca e l’argomentazione ridondante, votando pressoché solo alle antologie allestite dagli specialisti; a torto, perché anche questo voluminoso Commentario, una volta entrati nel vivo, non può non irretire il lettore grazie alla sua scrittura agile, e alla sua perizia retorica capace di dar leggerezza a una trattazione che, per altro, si chiama programmaticamente fuori dalle dispute strettamente teologiche e dalle questioni filologiche, per fare appello alla filosofia, cioè alla ragione naturale. In questo senso, il celebre storico dell’illuminismo Jonathan Israel, ha sostenuto che la posizione di Bayle è più avanzata di quella del tanto più famoso, ma più moderato Locke.

Sempre più osteggiato da una parte degli ugonotti ortodossi, che lo accusavano in sostanza di essere un seguace di Socino se non un deista, Bayle – che nel frattempo si era guadagnato una solida fama europea anche come giornalista con le Nouvelles de la République des Lettres – venne espulso dalla Scuola Illustre e passò il resto della vita dedicandosi ai suoi scritti, in particolare al monumentale Dizionario storico-critico pubblicato fra il 1697 e il 1702, un immenso repertorio che esamina criticamente fedi, superstizioni e filosofie dal mondo antico fino alla contemporaneità, e a cui avrebbero poi attinto a piene mani i pensatori libertini, consolidando presso i posteri la fama, non si sa quanto fondata, di Bayle grande scettico.