Chiudo l’ultimo numero de L’Espresso, dopo aver letto la chilometrica intervista al futuro Sindaco d’Italia («Per il governo io ho in testa il modello di una giunta che funziona con un forte potere di indirizzo del sindaco»). E riprendo in mano il romanzo che mi tiene compagnia in questi giorni. Eccone alcuni brani.

Il nostro politico «non è un uomo eticamente irreprensibile, né ha motivo per esserlo»; nella sua indole convivono virtù e difetti, «ma le prime come i secondi hanno per lui identica natura e sostanza». Elenco di virtù: «l’intelligenza innata, il coraggio, la serenità, il carisma, l’astuzia, la resistenza, l’istinto sano, la capacità di conciliare l’inconciliabile». Elenco di difetti: «l’impulsività, la costante inquietudine, la mancanza di scrupoli, il talento per l’inganno, la volgarità o la mancanza di raffinatezza nelle idee e nei gusti». Su tutto, «l’ambizione, che per un politico non è una qualità – una virtù o un difetto – bensì una semplice premessa».

Proseguo nella lettura. «Una volta nominato presidente cominciò a sferrare una serie di colpi a effetto con tale rapidità e sicurezza in se stesso che nessuno trovò motivi validi, risorse o coraggio per frenarlo». Era questo il suo modo di procedere: «prendeva una decisione inaspettata e, quando il Paese stava ancora cercando di assimilarla, ne prendeva un’altra ancor più inaspettata, e poi un’altra, e così via; improvvisava costantemente; imponeva un’accelerazione agli eventi, ma si lasciava anche trascinare dagli eventi; non dava il tempo di reagire, né di ordire qualcosa contro di lui, né di avvertire la discrepanza tra ciò che faceva e ciò che diceva, neppure il tempo di stupirsi: l’unica cosa che potevano fare i suoi avversari era restare in sospeso, tentare di capire quello che faceva e cercare di non perdere il passo».

Il politico puro deve sapere, fare, saper fare e – soprattutto – far sapere: «se in televisione fu quasi sempre imbattibile, perché dominava quel mezzo meglio di qualsiasi altro politico, nel faccia a faccia lo era anche di più». Da lui «tutti ascoltavano quello che avevano bisogno di ascoltare e tutti uscivano da quegli incontri irretiti dalla sua bonomia, serietà e ricettività, dalle sue eccellenti intenzioni e dalla volontà di tramutarle in fatti concreti». Dissimulando, «ingannava il prossimo con tale sincerità che neppure lui si rendeva conto di ingannare».
Scatta così un accumulo narcisistico che si autoalimenta: «esultante, navigava sulla cresta dell’onda dello tsunami dei suoi successi», lanciandosi in «imprese epiche capaci di spronare la sua immaginazione e centuplicare il suo talento come nel primo anno di presidenza, gesti di coraggio che esigevano stratagemmi giuridici, numeri di magia mai visti, falsi duelli contro falsi nemici, incontri segreti, scenari da paladino solo con il suo scudiero di fronte al pericolo». E poiché «i suoi trionfi gli avevano conferito un’assoluta fiducia in se stesso», pensò che era ora di prendere la decisione più azzardata: «elaborare una nuova Legge fondamentale, che si aggiungesse alle altre, modificandole in apparenza anche se nel concreto le derogava o autorizzava a derogarle», il che avrebbe permesso di trasformare l’ordinamento costituzionale «rispettandone i procedimenti giuridici».

Era «un’intuizione brillante, che però doveva essere approvata» dalle Camere, «in un inaudito processo di immolazione collettiva». La sua messa in pratica fu vertiginosa: «dopo giorni consecutivi di dibattiti e superando vari momenti nei quali tutto sembrava dover andare all’aria», il Parlamento approvò la riforma, e «le telecamere ripresero il momento, per poi trasmetterlo innumerevoli volte». «Fu un tocco di magia spettacolare, e il maggior successo della sua vita. Pochi giorni dopo, senza concedersi un istante di tregua per non dare agli avversari il tempo di riprendersi dallo stupore, indiceva un referendum sulla legge appena approvata», vincendolo alla grande.
Giunto a quel punto, «tutto era ormai predisposto per indire le elezioni e vincerle capitalizzando il successo delle sue riforme. Infatti le convocò e le vinse, e già che c’era eliminò gli ultimi rivali». Il successo elettorale fu tale che «forse pensò che a vincere era stato lui», non il suo partito, il quale «senza di lui non sarebbe stato quello che era». Cominciò a pensare anche altre cose: «forse pensava che il partito era lui, che il governo era lui, che la democrazia era lui. Forse pensava che avrebbe governato per decenni»: «in fin dei conti, pensava, un vero statista non governa per una parte, ma per tutti».

Chiudo il libro. E’ un romanzo su un evento ormai lontano della storia parlamentare spagnola (Javier Cercas, Anatomia di un istante, Guanda, 2012, pp. 334-335 e 360-372). Eppure mi ritrovo tra le mani pagine molto attuali e molto italiane, che descrivono – con rara precisione – una traiettoria possibile se non probabile, verosimile se non vera. Una lettura da condividere, a futura memoria.