Nell’ultima sala della sezione del Louvre dedicata alla Francia – racconta Pierre Michon – c’è un quadro che occupa da solo tutta una parete. Una tela di quattro metri per tre, protetta da dieci centimetri di vetro blindato perché nessun imprevisto possa scalfirla. È un quadro di François-Élie Corentin, dipinto a fine Settecento. Una targhetta, a lato, porta scritto, insieme a data e autore, il titolo: Gli Undici.
Gli Undici perché tanti sono gli uomini raffigurati sulla tela. Undici membri del Comitato di Salute Pubblica, Robespierre in testa, che tra il 1792 e il 1795 guideranno la Francia attraverso uno dei periodi più complessi e travagliati della società post rivoluzionaria: il Terrore. Il romanzo Gli Undici, appena arrivato in questi giorni in libreria (traduzione di Giuseppe Girimonti Greco, Adelphi, pp. 134, euro 16,00), è appunto la storia di quel quadro.

In dialogo con il passato
Con una precisione documentaria impressionante, Michon mostra al lettore come fu commissionata la tela, i giorni convulsi che accompagnarono la sua realizzazione, la vita di Corentin, la sua infanzia nel Limosino, i suoi anni di apprendistato nella bottega di Tiepolo, fino ad arrivare al quadro, a quei rappresentanti del Comitato di Salute Pubblica inchiodati in una sala del Louvre mentre fissano i visitatori dalle altezze siderali di un tempo indeformabile. Michon ha impiegato quasi quindici anni di ricerche documentarie per il suo romanzo, riuscendo a raggiungere un’esattezza rappresentativa così perfetta da diventare paradigmatica: attraverso la storia privata del pittore Corentin, è la Storia degli uomini, l’intero Settecento ad aprirsi nel testo, mostrando la forza e la vulnerabilità delle proprie tensioni interne.
Quando il libro è uscito in Francia nel 2009, parecchi lettori, incuriositi, sono andati al Louvre, pronti a confrontare le lunghe pagine di ekphrasis di Michon con la visione diretta della tela. Se non fosse che in quell’ultima sala, al Louvre, non c’è nessun quadro con quel titolo, nessun pannello esplicativo racchiude in poche righe la vita e le opere di Corentin, nessuna guida o catalogo del museo riporta il suo nome. Gli Undici, infatti, non esiste. François-Élie Corentin non esiste. La sua infanzia a Combleux, il padre scrittore, la madre e la nonna dalle ampie gonne bianche, gli anni a bottega da Tiepolo non esistono. Tutto il romanzo di Pierre Michon, così accurato, così storicamente impeccabile, è un’immensa, ingegnosa opera di inganno.

Perché un inganno riesca, perché una macchina narrativa si riveli una trappola senza scampo occorre innanzitutto un linguaggio all’altezza del compito. Michon risiede ormai da anni nell’empireo dei classici della letteratura francese contemporanea proprio in forza della sua lingua. Una lingua per nulla semplice, di una precisione descrittiva quasi millimetrica, che prevede un lettore coltissimo (e un traduttore altrettanto erudito, cosa che negli Undici di Adelphi emerge in modo virtuosistico) e in cui si coglie immediatamente il dialogo diretto, da pari a pari, con i grandi del passato.

Beninteso, non c’è nulla di oleografico nei testi di Michon, una prospettiva come la sua – così ostinatamente rivolta all’indietro – potrebbe facilmente cadere nella trappola di un manierismo prezioso, una maschera di cera sul corpo di una letteratura morta e sepolta da almeno un secolo e mezzo. In lui invece non c’è nulla di posticcio. L’infinito gioco di rimandi e di echi pittorici o letterari che segue sottotraccia la sua prosa non ha nulla di artificioso e non si può nemmeno interpretare come esperimento in chiave postmoderna di decostruzione e riappropriazione di temi e stili narrativi. La scrittura di Michon non «cita», non si compiace della propria natura ibrida all’interno di un rapporto dialogico tra presente e passato, ma semplicemente esiste e si invera all’interno di un tempo «altro», e non solo per quanto riguarda il linguaggio, per il suo miracoloso aderire senza sforzo alla scrittura alta della tradizione, ma per ciò che il linguaggio stesso racconta: l’attimo del passaggio, l’emersione della Storia e il suo farsi presenza.

Gli Undici infatti non è un’opera di pura e semplice invenzione, ma sembra costruita su una dialettica continua, irrisolvibile tra dimensione referenziale e finzionale, tra reale e immaginario. La Storia appare nelle pagine del romanzo più vera del vero, proprio perché non è soltanto immaginata, ma è figlia di un impasto indissolubile tra presenza e assenza, tra il reale e il suo fantasma. Michon del resto, in un’intervista di qualche anno fa ha detto: «la storia, anche la più recente e la più documentata, sembra essere in fin dei conti opaca, misteriosa, terribile e bella quanto le pitture di Lascaux. La storia non è altro che finzione, la finzione suprema». Per lui dunque non sembra esistere praxis senza pathos, perché non può esistere realtà senza montaggio, ovvero senza la sua riconfigurazione discorsiva. Alla scrittura di Michon appartiene infatti – e lo abbiamo visto in tutta la sua produzione, da Vies Minuscules a Rimbaud le fils, da Maîtres et serviteurs a Corps du Roi – una evidente capacità demiurgica di resurrezione. Il suo discorso sembra obbedire a una pervicace volontà di sottrazione alla morte, all’oblio, così come il suo linguaggio è sempre un continuo, rinnovato mistero della parola incarnata («Sono scampato io solo che ti racconto questo», dice al lettore il protagonista contadino di Vies minuscules). Ma in questo particolare tipo di resurrezione, non è tanto il passato a riemergere sotto i nostri occhi, quanto la sua rappresentazione mitica.

Costruzioni discorsive
Non è il Settecento a tornare in vita, quanto la sua aura. Del resto, ogni mitopoiesi di fatto agisce sempre su un’assenza, come se la sottrazione del dato storico fosse in qualche modo necessaria all’assunzione di una dimensione leggendaria come surplus, eccedenza simbolica di fronte al venir meno del reale. La scena del massacro sulla scalinata nella Corazzata Potëmkin del 1925, su cui si innesterà la costruzione mitopoietica del bolscevismo, racconta di un accadimento mai avvenuto, Ejzenstein l’ha completamente inventato. L’atto fondativo della mitologia comunista non esiste, o meglio, è una costruzione discorsiva. Molte persone ancora oggi a Odessa vanno sulla scalinata che conduce al porto, ignare di calpestare una proiezione immaginaria, esattamente come i visitatori lungo i corridoi del Louvre, alla ricerca degli Undici, non sanno che in fondo al cammino non potrà che esserci un muro bianco ad aspettarli. Ogni mito, di fatto, è una scatola vuota.