Da qualche tempo sembra che la musica, con i suoi attraversamenti diacronici che coinvolgono il barocco, il melodramma, il teatro musicale del ‘900, abbia assorbito le energie creative dei maggiori collettivi artistici e teatrali italiani in un allineamento che li pone a livelli eguali se non superiori ai loro dirimpettai continentali. Ovviamente le ragioni di tale e felice congiuntura è molto più profonda e scava nel desiderio di svecchiare da un lato i cartelloni dei teatri d’opera, dall’altro di provare a sondare la contemporaneità con aperture mentali che leggano l’attuale frammentazione della società con le sue tante scomode, sparpagliate e poco comunicanti nicchie «social».

Non è esente da ciò la ricerca di nuovi pubblici, da non individuarsi soltanto nella categoria «giovane», ma anche appartenenti a categorie socio-economiche escluse dai consueti circuiti culturali. E gli strumenti sono: affermazione della direzione artistica come curatela, della performance, della regia come atto critico, delle forme «expanded» del video, della messa in ascolto dello spazio attraverso sofisticati disegni sonori, dell’attivismo culturale (che maschera spesso anche un attivismo politico infuso nella responsabilità personale).

La si chiami come vuole, ma questa ricerca inquieta e aggiornata è parte integrante del collettivo Anagoor che nel periodo più cupo della pandemia, con il lockdown che ha chiuso in casa più di mezzo mondo, ha celebrato i suoi vent’anni di attività con l’uscita di un doppio album in vinile «MMXX», contenenti le musiche di Mauro Martinuz per spettacoli come Magnificat e Socrate il sopravvissuto e la registrazione del Secondo Libro dell’Eneide da Virgilio Brucia nella geniale performance di Marco Menegoni, forse la più bella voce del teatro italiano di questi anni. E con un libro Una festa tra noi e morti sull’Orestea di Eschilo, in cui è riverberata la base critico-teorica del lavoro di Simone Derai e del collettivo compiuto sull’atemporalità della classicità greca.

Scavallando il tempo sospeso del lockdown, come si va assistendo operoso per molti e anche per il collettivo veneto, la conversazione telefonica avuta con Derai nei giorni di prova del nuovo lavoro dedicato a Claudio Monteverdi per il Festival dedicato al musicista barocco (la prima questa sera, ore 20, al Teatro Ponchielli di Cremona e in replica il 25 giugno. Poi il 6 e 8 luglio al Teatro Valli di Reggio Emilia) ha consentito di riannodare i fili di un discorso cominciato quattro anni fa con il tour emiliano del Faust di Gounod e proseguito nell’autunno del 2019 a Palermo con lo Schumann di Das Paradies und die Peri. Ed infatti così comincia il dialogo Simone Derai, il mobilissimo motore del progetto artistico di Anagoor, ed anche qui nel dittico Monteverdiano Il Ballo delle Ingrate/Il combattimento di Tancredi e Clorinda cura regia, video, scene e costumi: «Noi ci proponiamo nell’accettare le commissioni che ci arrivano di mettere a continuo confronto la tradizione con la contemporaneità.

È accaduto con la mise en espace del Palazzo di Atlante di Luigi Rossi, con il Faust e la Peri di Schumann. Ed è stato il caso anche di Monteverdi. Di certo veniamo chiamati anche per l’accoglienza che potrebbe avere un’opera poco conosciuta». Non è però certo il caso di Monteverdi, con due titoli molti noti. «Sì, Monteverdi ha un suo pubblico e una certa notorietà. Anche l’opera di Gounod era molto popolare. Il tema di Faust si prestava molto ad una vera e propria messa in scena, l’opera sembrava fatta apposta per farci incontrare l’opera lirica. Forse per il barocco sembriamo una realtà artistica più adatta. Bisognerebbe chiedere alle committenze».

L’aver guardato in anteprima con un montaggio musicale di servizio l’installazione video che accompagnerà l’esecuzione dell’Orchestra Il Pomo d’Oro, diretta Francesco Corti, rafforza l’idea che Anagoor stia compiendo una sorta di viaggio tra le pieghe della storia dello spettacolo, dell’arte e della cultura italiana ed europea. E il suo teatro musicale ne è la sintesi storica e allo stesso tempo è il tentativo di scrivere una nuova filosofia della scena. Un basso continuo sentimentale, quasi confidenziale, che se non si tramuta in storia segreta, poco ci manca. «Scrivo tanto ex post. Un diario che prima di mettere su carta è già tutto nella mia testa. Mai prima, poi si sa che tutto è veloce e non si trasforma subito in scrittura, ma ciò che ho in mente si chiarifica con tutto un lavoro progressivo. Anche lo studio di Monteverdi ha seguito il medesimo andamento, in un felice andirivieni tra un dentro e fuori la sua opera che è universale, senza tempo, ma è stata generata in un contesto preciso».

Vi è la consapevolezza di star agendo su un terreno storico ben preciso? «Esattamente. E vale la pena di andare a vedere cosa succedeva e così scopri tutto un mondo. Se Il combattimento è Tasso – con tutto quello che consegue sul piano squisitamente letterario e esecutivo – nel Ballo delle ingrate, composto nei primi anni del ‘600 per le nozze di Margherita di Savoia con Francesco Gonzaga, peraltro una delle feste più sfarzose delle tante di quel tempo, scopri un manifesto del patriarcato, dell’affermazione su tutti e tutto di una virilità che aveva ragione di essere solo in quel momento. In cui il femminile è condannato all’obbedienza, creando nei fatti il suo inferno». «Poi con il barocco mi è parso di trovare un linguaggio affine al nostro pensiero, vuoi per una certa arcaicità, immaginifico come lo è il teatro antico, che rinasce dopo l’età di mezzo, e lo fa attraverso un medium maschile».
Nei form approntati per lo spettacolo è tracciata una via che non è semplice cosmetica, ma vero innesto di generi nuovi in una tradizione recuperata attraverso la musica. Non vi è un uso vincente del bisturi della storia. Piuttosto, il tentativo di recupero di uno spirito dei tempi e non è un caso che proprio la musica di Monteverdi si presti alle più disparate esecuzioni, dalle più rigorosa ricerca filologica con strumenti originali fino alle improvvisazioni jazz.

«I generi nati da questo ritrovamento dell’antico si ibridano in modo inatteso, sconfinando in altre forme mai prima di allora conosciute…Si diceva di storia segreta. Non l’avevo immaginata così, ma guardando attentamente è l’inizio di una storia segreta della scena. Sia il Ballo sia il Combattimento sono capostipiti della concezione moderna del balletto e dell’opera. La rilanciano. Seppur poi quegli episodi non li rivedremo più, la loro eco così sperimentale ed esplosiva si protrae nel tempo brillando come bombe. Ecco che così il doppio piano del video racconta di più la fabula e il suo contesto come evento costitutivo ed eco di quest’esplosione».

Se l’apparato visuale del Ballo è iscritto nel suo tempo, l’episodio del Combattimento di Tancredi e Clorinda parla al presente, anche con l’opening rurale e tecnologico con la ripresa aerea da un drone dell’arrivo in moto dei protagonisti in una periferica palestra di scherma. «Abbiamo voluto far vedere la campagna trevigiana dove viviamo, un mix infame di campi e cemento». La ferita lamentata da Zanzotto. «Vero, stiamo lavorando intorno alle sue Egloghe, sarà un nostro presuntuoso omaggio alle ombre di Virgilio». Che torna a bussare alla vostra porta. «Sì, se mi è consentito di tornare su Monteverdi come epicentro creativo di slittamenti temporali che nel Ballo vengono rimandati nel dentro e fuori del vertiginoso abisso infernale cui si trovano gli spettatori nel guardare sia la sposa sia la lunga teoria architettonica della galleria che la incornicia al suo destino. Mentre, il Combattimento non rappresenta né Tancredi né Clorinda. Eppur questo combattimento diviene in un semplice evento sportivo simbolo di tutte quelle contraddizioni – e le leggo nell’opera tassiana così colma di classicità e di tutti i temi che sostanziano la tragedia classica – che sono alla base della nostra identità di europei. Clorinda non muore, ma resta irrisolta una violenza che continua tremenda su di lei e che non fa che riflettere su questioni oggi più che mai attuali per quanto riguarda sia il maschio il lessico stesso della violenza».