Le parole visionarie e profetiche bucano l’oscurità, mentre si alza un canto che sembra la preghiera di un muezzin. Poi la lenta assolvenza della luce rivela la presenza di un giovane immobile di fronte a un microfono sulla scena nuda del teatro alle Tese, nell’Arsenale veneziano. È lui a dire le parole profetiche di Sergio Quinzio che fanno da prologo allo spettacolo. Un discorso sulla morte privo di toni luttuosi, vi si ricorda il gallo che Socrate chiede di sacrificare a Esculapio, nel momento in cui morendo guarisce dalla vita. Sull’Orestea di Eschilo dice la locandina. E bisogna concentrarsi sulla preposizione.

Era quasi inevitabile che arrivassero alla tragedia, Simone Derai e Anagoor, dopo due lavori che interrogavano la morte di Virgilio e quella di Socrate, sulla soglia della classicità che da sempre è l’orizzonte del gruppo di Castelfranco Veneto. Ci arrivano grazie alla Biennale teatro che nell’occasione del debutto li premia con il Leone d’Argento (quello d’oro alla carriera è andato a Rezza e Mastrella, come i lettori del manifesto hanno già letto, e l’accostamento suona allegramente dissonante). E non è un caso forse che abbiano scelto la più arcaica e dunque la più pura nella sua forma, fra le tragedie che sono arrivate fino a noi, ma anche quella più ricca di temi che continuano a riverberare nella coscienza dell’Occidente. Gli ultimi decenni del Novecento ce ne hanno lasciato immagini straordinarie, da Luca Ronconi a Peter Stein, per arrivare alla fisicità esposta da Romeo Castellucci insieme alla Societas Raffaello Sanzio… Va per un’altra strada la complessa drammaturgia elaborata dal regista Simone Derai insieme a Patrizia Vercesi che, com’è abitudine per Anagoor, intreccia innesti testuali di una galassia di autori distanti fra loro e intercala immagini video che hanno insieme la funzione di spezzare la continuità narrativa e di sottolineare ciò che resta velato dalle parole. Anche se la prima parte, Agamennone, non si discosta molto dalla vicenda tramandata da Eschilo.

Il fuoco che, sullo schermo di fondo, brucia antiche carte geografiche è il segnale atteso. Un ragazzetto riccio arrampicato su una torre di casse acustiche annuncia che Troia è caduta. La scena si riempie di un coro di ragazze e ragazzi dai vestiti leggeri e trasparenti, colori di terra – è il corpo della tragedia. E da quel coro danzante nell’immobilità escono fuori i protagonisti. La Clitennestra di Monica Tonietto rivestita di un fastoso costume barbarico che sembra la Medea di Pasolini. L’Agamennone di Sebastiano Filocamo inconsapevole di giocare un ruolo sbagliato nella storia. Cassandra che parla la lingua straniera di Gayané Movsisyan, attrice armena che avevamo già incontrata in Virgilio brucia. E poi naturalmente Marco Menegoni che è il didascalico narratore coinvolto suo malgrado nell’azione.

Forse più di altre volte è la musica, il disegno sonoro curato da Mauro Martinuz, a tenere insieme, spesso in maniera invadente, i frammenti spettacolari. Dove si innesta a sorpresa il primo dei Kindertotenlieder di Gustav Mahler, il canto per i bambini morti. E qui è inevitabile riandare all’uccisione sacrificale di Ifigenia per favorire la partenza delle navi verso la guerra, lo dicono anche le immagini silenziose di un macello in funzione. Lontano evento generatore del conflitto tragico, della rottura violenta fra i valori patriarcali e quelli materni. La seconda parte, che dovrebbe riunire Coefore ed Eumenidi, gli altri due tratti della trilogia, vira ormai verso un altrove. La voglia di frammentare la narrazione si fa più evidente, come indicano i titoli cambiati.

Anche se per bagliori si affacciano ancora le figure di Oreste ed Elettra. Schiavi si apre con una passeggiata di Sebald per le strade di Corsica, rimasta come frammento di un libro che lo scrittore non ebbe il tempo di finire di scrivere. E torna il tema della morte, che fa tutt’uno con quello del cambiamento in Conversio. Termine indicante il senso di un rivolgimento che però è prima di tutto interiore. Ed ecco il «tempo verrà» che richiama il Cantico del gallo silvestre leopardiano e anticipa le parole con cui Herman Broch racconta gli ultimi istanti di Virgilio. Si esce che sono passate quasi quattro ore ma è teatro.