Attrice, sceneggiatrice e prolifica regista del cinema argentino – l’esordio nel 2002 con la commedia El juego de la silla – Ana Katz ha vinto il premio Big Screen del Festival di Rotterdam appena concluso con El Perro que no calla, la storia di formazione del protagonista Sebas (lo interpreta il fratello della regista Daniel Katz), spostata però in avanti negli anni, verso la mezza età: «In fondo a qualunque età ci troviamo in un coming-of-age: pensavo fosse divertente raccontare un personaggio più ’vecchio’ di quelli che di solito si vedono in queste storie». Il suo Sebas si trova a fare i conti con un mondo – la società che lo circonda, in una Buenos Aires fuori dal tempo – spesso indifferente se non ostile, a partire dalla sua scelta di lasciare il lavoro per non doversi liberare della sua cagnetta. Almeno finché non trova un gruppo di persone con cui finalmente stabilire un legame, una cooperativa agricola: «Con loro comincia a sorridere per la prima volta. Volevo che il pubblico ne fosse sorpreso, e si chiedesse perché prima non era mai successo. Per me e Gonzalo Delgado (co-sceneggiatore del film, ndr) era fondamentale raccontare come per la prima volta entri a far parte di un gruppo di persone, una rete di solidarietà”. Ma le avversità non sono finite, nel lungo arco temporale coperto dal film un meteorite si abbatte sulla terra, con conseguenze simili alla pandemia che stiamo vivendo: l’aria oltre una certa altezza diventa irrespirabile, e bisogna indossare una sorta di bolla sulla testa – oppure camminare, lavorare, mangiare e vivere accovacciati per terra.

Come è nato il progetto del film e perché ha deciso di girare in bianco e nero?

Sono partita da una sensazione, dall’idea che ci fossero troppe «informazioni» intorno a me. Viviamo in un’epoca in cui alle volte è veramente difficile gestire la quantità di stimoli di cui siamo bombardati: show e serie tv, social media, le chat su whatsapp… Volevo concentrarmi su una storia umana, «sensibile», facendo in modo di ridurre tutto il rumore che ci circonda – il bianco e nero consentiva di andare in questa direzione, di eliminare l’inessenziale, di concentrarsi sul protagonista e i salti temporali. All’epoca stavo attraversando un lutto: avevo da poco perso mio padre e un caro amico, e pensavo continuamente alla vita, ai suoi movimenti profondi di trasformazione.

Questa «sensibilità» del film è propria anche del personaggio di Sebas, che nonostante tutto quello che gli accade non perde mai la calma.

Ci sono due modi di vedere Sebas: alcuni pensano che sia una persona empatica, che si prende cura degli altri, degli animali, anche delle piante. Altri lo vedono come un uomo passivo, che non reagisce come dovrebbe. Accetto entrambe le letture, ma io lo vedo come una persona diversa dallo stereotipo maschile – sempre in controllo della situazione, «rumoroso», sicuro di sé. Penso che sia pieno di vita, in continua trasformazione. Volevo raccontare un uomo sensibile all’interno di un sistema ostile, in termini pratici – ad esempio nella scelta di non dare via il suo cane.

Nell’episodio del meteorite si rispecchia sotto tanti aspetti la situazione che stiamo vivendo con la pandemia.

Ho scritto il film alcuni anni prima del Covid, e anche le riprese sono precedenti alla pandemia. Ma in fondo non mi sorprende che ci sia stata questa «coincidenza», perché penso che il sistema in cui viviamo abbia delle enormi falle da cui penetra ciò che può farci del male, che sia un virus, un meteorite o qualcos’altro. Questa «visionarietà» di El perro que no calla nasce semplicemente dalla percezione di un sistema che regola le nostre vite e non è interessato a ciò che accade alle persone. Da un punto di vista economico per esempio questo è molto chiaro: la dimensione umana è completamente dimenticata. Il movimento del sistema non si ferma, anche durante una pandemia: c’è chi muore di fame e a noi non interessa, continuiamo ad andare avanti trasportati dal movimento inarrestabile. Per questo ho scelto di lavorare su scala umana: mangiare un panino, incontrare una persona, prendersi cura delle piante – le piccole cose con cui riportare le persone al centro del racconto. L’idea delle bolle da mettere in testa per respirare – a disposizione dei dottori e di chi può permettersele, mentre gli altri devono camminare rannicchiati, vicino a terra – era un modo ironico per mettere in scena come siamo capaci di adattarci a tutto, a qualunque cosa assurda ci venga richiesta.

Non ci sono riferimenti temporali che ancorino il film a un momento preciso nella storia argentina.

Non volevo che la storia di Sebas fosse legata a un momento specifico. Forse perché ancora una volta questo avrebbe portato in primo piano la dimensione umana, universale, all’interno del sistema di potere in cui viviamo tutti: crescendo se ne scoprono tante «varianti», per esempio diventando madre, o lavorando per fare un film… Per cui è anche una scelta politica fare in modo che la storia non avesse una collocazione temporale inequivocabile.

«El perro que no calla» è stato presentato in due importanti Festival internazionali, Rotterdam e il Sundance, che si sono entrambi tenuti online. Cosa pensa della situazione che sta attraversando il cinema in questo momento di crisi sanitaria?

Sono grata del fatto che il film abbia potuto circolare nonostante la pandemia. Ma neanche io sono ancora riuscita a vederlo sul grande schermo, ed è naturalmente un peccato perché così si perde tutto il lavoro fatto sul sonoro, la fotografia… Durante i festival ci sono stati dei momenti che mi hanno ricordato quanto è bello poter condividere queste esperienze con il pubblico, gli altri filmmaker. Ad esempio durante l’introduzione del film al Sundance: sullo schermo si intravedevano la neve, le montagne, e ho pensato che avrei potuto essere lì! La situazione in cui ci troviamo è così pervasiva che quasi ci si dimentica che le cose possano essere diverse. Da un punto di vista generale, ciò che mi preoccupa è soprattutto la situazione dei lavoratori dello spettacolo: in Argentina le nostre troupe, i tecnici, gli attori, affrontano un momento davvero difficile – tranne chi può lavorare per gli show televisivi, per le grandi produzioni che vanno avanti con le misure di sicurezza. Ma a eccezione di chi ha budget importanti la maggioranza dell’industria è ferma. E tante persone, tante famiglie, stanno affrontando gravi difficoltà anche solo per sopravvivere.