Doveva essere uno dei suoi ideali estetici. La sua musica suonata in una discoteca. E non una discoteca qualsiasi, ma la più severa/spettacolare che ci sia, la più spaziale e la più ferrosa. All’Alcatraz, nome che a tutti evoca l’inferno della costrizione e gli spazi aperti della ribellione e della fuga per la libertà, inizia con Fausto Romitelli e il suo ultimo lavoro, An Index of Metals, il 23° festival di Milano Musica. Incentrato proprio su di lui, Romitelli, morto dieci anni fa a soli 41 anni al termine di una lotta disperata contro un tumore killer. E la sua resistenza alla malattia procedeva insieme alla scrittura di quest’opera che, forse, lo rappresenta nel modo più completo. Lunare e metallica, sognante e durissima.

 

L’Ensemble Ictus diretto da Georges-Elie Octors è sulla pedana di questo enorme hangar, di questo capannone industriale trasformato in luogo di frenesie e riflessioni rock, techno, disco, video. Le stesse frenesie e riflessioni di Romitelli. È il gruppo di strumentisti che ha collaborato direttamente col compositore alla produzione di An Index, che per primo l’ha eseguito e registrato. Archi, ance, ottoni, tastiere, chitarra e basso elettrici, elettronica. Fin dalle prime battute si capisce che nessuno fino a oggi è in grado di suonare questo brano di un’ora circa meglio dei musicisti dell’Ictus. L’avvio è perturbante. Ed è ormai entrato nel mito della musica contemporanea, così come l’autore, un eroe maledetto e tenero, un James Dean, un Jim Morrison degli assemblaggi di suoni «colti».
Un frammento dei Pink Floyd viene diffuso e subito troncato. Trascorre il tempo di una pausa lunghissima, interminabile. Poi di nuovo questo lampo soffuso. Poi un’altra pausa di silenzio. Poi il frammento registrato viene arricchito e stravolto e distorto da graduali inserimenti degli strumenti acustici. Densi, lancinanti. Le pause diventano sempre più brevi e, infine, il frammento geneticamente modificato diventa un solo grumo di suoni che lasciano il posto a un filo sottile di suono elettronico-acustico. Siderale. Ed è il momento della prima entrata di Donatienne Michel-Dansac, la chanteuse che da sempre è chiamata a interpretare le parti vocali del brano. Questa prima «aria» è magia e perdizione, dolcezza e sventatezza.

 

Da qui in avanti An Index of Metals è un’avventura sonora che lascia meno spazio alle dolcezze, sia pure «lunari» (ma qualche spazio sì). Diventa soprattutto studio sulla durezza. Blocchi di suoni aspri, cangianti, si succedono dapprima con procedimento mai narrativo, mai modulante. Sono esempi magnifici dell’arte di Romiteli di inventare sonorità acustiche che hanno tutto l’aspetto delle sonorità sintetiche. L’amore per la musica techno risalta. Se c’è psichedelia non è del tipo viaggi estatici, ma piuttosto del tipo viaggi riflessivi e frementi in una metropoli più dannata che luccicante, più difficile ed eccitante e sperimentale che accogliente. Musica di terra, di industria sul punto di esplodere, di tecnologia amata come strumento di rivolta.
Si ascoltano richiami alle punteggiature glitch dei Pan Sonic e anche a certe loro tribali scansioni. Si ascoltano richiami al metallo pesante e all’hard rock quando cominciano ad entrare in scena la chitarra e il basso elettrici. Le nuove «arie» della voce di Dansac sono assai più «operistiche» o «liederistiche». Sono le fasi del lavoro in cui Romitelli sembra omaggiare, come ha fatto di rado, la Vienna novecentesca. Alban, fratello e maestro, Arnold, inaudito inventore di Pierrot appunto lunari! Ed è un bel contrasto, quasi colpi di scena ripetuti, questo tra la voce classico-novecentesca e lo strumentario acustico-elettronico di una contemporaneità «colta» tutta giocata sulla tecnologia e sull’aura della musica ribelle «di consumo».

 

Si ascoltano episodi terrifici e mirabili di contrappunti la cui materia sono strappi delle tastiere, stridii degli archi e delle ance. E sempre la densità degli impasti romitelliani, il suo modo di dire le due parole: intensità espressiva. Il finale potrebbero essere, che so, gli AC/DC. Chitarra e basso impazzano. Ma c’è molto più delirio del pensiero divergente, molta più complessità