Per difendere l’onore di Amy Winehouse, cantante e musicista, nel gennaio del 2008 scende in campo, con tutto il peso del suo prestigio, il mensile musicale britannico Mojo, la bibbia degli appassionati per eccellenza, dedicandole una magnifica copertina in bianco e nero. Presa d’assalto dai tabloid inglesi, la vita della musicista s’era trasformata in un inferno mediatico. Lo strillo di copertina non lascia adito a dubbi: «La musica è dove posso essere onesta». A distanza di quattro anni dal 23 luglio del 2011, quando fu ritrovata priva di vita nella sua casa, il rimpianto per tutto ciò che Amy Winehouse avrebbe ancora potuto dare alla musica, si fa più lancinante. In uno dei momenti più illuminanti del film di Asif Kapadia, Questlove, batterista dei Roots, un’enciclopedia musicale ambulante, rivela che Amy Winehouse sognava di mettere in piedi una sorta di supergruppo con artisti hip-hop che amava: lo stesso Questlove, Mos Def, Raphael Saadiq e forse qualche altro. «Amy non faceva altro che dirmi di ascoltare dischi, non si stancava mai di segnalarmi della roba che non conoscevo. Pensavo di avere la mia laurea jazz in tasca, ma lei mi batteva ai punti» racconta senza nascondere la sua commozione.

A differenza del pessimo Kurt Cobain: Montage of Heck di Brett Morgen, Asif Kapadia non dimentica mai che Amy Winehouse, nonostante la sua carriera brevissima, è stata la più grande e sorprendente rivelazione musicale degli anni Dieci. E nemmeno tutto il fango dei tabloid può nascondere questa banalissima verità. Giunto a Cannes sull’onda delle polemiche provocate dalle dichiarazione di Mitchell Winehouse, il padre della musicista, che accusa il film di offrire un ritratto non corretto della sua persona, era legittimo attendersi il peggio dal film di Kapadia, autore fra l’altro del mediocre doc Senna. Adottando ancora una volta la scelta di affidarsi esclusivamente ai materiali d’archivio, lasciando a galleggiare nel fuoricampo le voci di coloro che raccontano l’ascesa e la caduta di Amy, Kapadia, se non altro, aggiusta un pochino il tiro rispetto al film precedente. Come un romanzo di formazione, il film segue la traiettoria di una ragazzina geniale, segnata dal divorzio dei genitori.

Come nel caso del film di Morgen, anche Kapadia ha avuto accesso a una mole immensa di materiali privati e d’archivio, e probabilmente a soffrire maggiormente della mancata selezione è la durata del film con il suo minutaggio a quota 137 primi abbondanti. Eppure, se la parabola musicale appassiona, il film manifesta progressivamente anche crepe di non poco conto. Kapadia, infatti, fatica a individuare il discrimine fra informazione, omaggio, rivelazione e scoop, spostandosi sovente nel campo dei tabloidisti. L’ansia di realizzare il film definitivo sull’ «artista maledetta», provoca delle notevoli cadute etiche. Le modalità con le quali Kapadia indulge sulle foto dell’appartamento di Camden condiviso dalla musicista con l’adorato Blake Fielder, la crudeltà addirittura voyeurista che evidenzia ferite, macchie di sangue, depilazioni imperfette, è il corrispettivo britannico del lost weekend di Kurt e Courtney del film di Morgen.

Ed è proprio questa mancanza di tenerezza, affetto dallo sguardo di Kapadia a provocare disagio. Come se, in fondo, anche Kapadia e il suo film non fossero altro che l’ennesima tappa della medesima pratica di saccheggio che, quando era ancora in vita Amy, imponeva la ripetizione della scaletta di Back to Black sino all’autodistruzione del materiale. Il vero conflitto del film, ossia la relazione di amore e odio fra la musicista e il padre Mitchell, forse uno dei principali coresponsabili della precoce fine di Amy, con la sua decisione di spingerla in tour quando non ce n’era bisogno, solo per conservare i riflettori puntati sul brand domestico, attraversa il film come un non-detto esposto a tratti ma maldestramente.

Da un lato Mitchell, che trascina anche su una lontana isola deserta una troupe per filmare Amy al riposo, e dall’altra Tony Bennett, un padre artista, genuinamente innamorato del talento della figlia putativa. E non è un caso che il materiale, seppure già visto, della vittoria ai Grammy commuove sempre. Amy, nonostante l’evidente sforzo di Asif Kapadia, è un film appassionante solo a tratti. La mancata razionalizzazione del materiale è il segno evidente di un eccesso che in mancanza di uno sguardo e di un’etica, auspica la presunta neutralità della filologia o della cronaca. Questa contraddizione, fra un’artista come Amy Winehouse, è l’impacciata inadeguatezza di un regista che tenta di celarsi dietro la presunta oggettività del materiale, è probabilmente la misura esatta dei limiti di un film interessante sì ma certamente non riuscito.