«Contro Yitzhak Rabin agirono tre forze. I rabbini più fanatici che usarono il Talmud per giustificare le loro invettive, la lobby dei coloni che non voleva il ritiro di Israele dai Territori palestinesi e la destra parlamentare. Questo triumvirato scellerato fu in grado di destabilizzare un governo eletto democraticamente».

Amos Gitai parla con il suo abituale tono pacato, sorseggiando un tè, ritornando indietro con la memoria ai mesi e ai giorni in cui Yigal Amir, giovane ebreo estremista di destra, maturò la decisione di assassinare il primo ministro la sera del 4 novembre di venti anni fa. «Non sto dicendo che la destra parlamentare sia dietro l’uccisione di Rabin, tuttavia scatenò nei suoi confronti una campagna molto dura», tiene a precisare il più famoso dei registi israeliani, riferendosi alle proteste organizzate dalla galassia di partiti e movimenti schierati contro gli accordi Oslo, durante le quali venivano esposti poster del primo ministro con l’uniforme delle SS.

Sempre controcorrente, per tutta la sua lunga carriera, Gitai al premier assassinato ha dedicato il suo ultimo film, “Rabin, the last day“, presentato a settembre al Festival del Cinema di Venezia.

Mercoledì 4 novembre il film, che indaga sul clima in cui avvenne l’attentato, sarà presentato a Tel Aviv, per la prima volta in Israele, e il giorno successivo a Gerusalemme. E già si annunciano le polemiche da parte della destra e dei coloni presi di mira da Gitai.

La destra, religiosa e ultranazionalista, vedeva negli accordi di Oslo firmati da Rabin e il leader dell’Olp Yasser Arafat nel 1993 a Washington e nella restituzione ai palestinesi della Cisgiordania e di Gaza, un’aggressione all’integrità di Eretz Israel, la biblica terra di Israele.

Oggi questa parte politica ha importanti rappresentanti ai vertici della istituzioni e alcuni dei suoi leader sono nella coalizione di governo guidata dal premier Netanyahu. Gitai non ha dubbi sul fatto che quella destra dei tempi di Rabin abbia poi avuto il sopravvento.

«L’aspetto più triste è che la destra oggi al potere non ha opposizione. Questo è molto grave perchè viviamo in un’epoca in cui decide tutto una sola persona», aggiunge il regista in evidente riferimento a Netanyahu.

Sabato scorso nella stessa piazza di Tel Aviv dove fu assassinato e che da allora porta il suo nome, circa 100mila israeliani hanno ricordato Yitzhak Rabin e contestato il governo in carica.

Gitai afferma che Rabin non è e non deve essere un mito e, più di tutto, non può essere una icona della sinistra. «Non è stato», spiega, «un leader di sinistra. Rabin era patriota che aveva capito che al centro della complessità di questa regione c’è la nostra relazione con i palestinesi, con i quali va raggiunto un compromesso perchè appartengono a questa terra». Rabin, prosegue il regista, «era una persona semplice, che parlava chiaro, in netto contrasto con i politici attuali che per i loro interessi manipolano i mezzi d’informazione e mettono gli ebrei contro gli arabi e spesso anche gli ebrei europei contro gli ebrei mediorientali».

Un giudizio condiviso, almeno in parte dall’analista palestinese Hamada Jabar. «Per noi Rabin non è un simbolo della pace come per voi in Europa o per una parte degli israeliani» dice «Rabin per i palestinesi era quello del pugno di ferro durante la prima Intifada (1987-93), il ministro che ordinò di spezzare le braccia ai palestinesi che lanciavano sassi. E gli accordi di Oslo, peraltro molto contestati dalla nostra gente, hanno cambiato solo in parte l’immagine che Rabin aveva tra i palestinesi».

Jaber allo stesso tempo sottolinea le differenze esistenti tra l’approccio alla questione palestinese del premier assassinato 20 anni fa e quello dell’attuale leadership politica israeliana.«È anche una questione di statura politica. Rabin era un leader vero per la sua gente così come Yasser Arafat lo era per la nostra. Forse insieme avrebbero potuto raggiungere risultati diversi rispetto a quelli che oggi vediamo sul terreno. Però è soltanto una ipotesi e tirando le somme la pace di Oslo si è rivelata disastrosa per noi».

Il racconto delle ultime ore di Rabin sono l’allarme che Gitai lancia sulla deriva ultranazionalista della società e della politica in Israele, che prende di mira soprattutto i palestinesi, quelli dei Territori occupati e con passaporto israeliano, e lancia una sfida anche alla libertà degli artisti.

Nei mesi scorsi la ministra della cultura Miri Regev ha ripetutamente attaccato gli artisti israeliani accusandoli di non essere in linea il governo e il “consenso nazionale”.

«Non ci sono ancora problemi per la libertà di espressione, forse verranno anche quelli» avverte Gitai «il problema più serio al momento è la continua pressione sugli artisti più giovani per costringerli ad adeguarsi, a conformarsi alla linea ufficiale. La ministra Regev è una persona incolta che si è vantata di non aver mai letto Čechov. Con lei in quella posizione il rischio è quello che vengano decise sanzioni nei confronti di quelli che scelgono di non allinearsi. In ogni caso la missione di un buon artista è di quella di svolgere un lavoro analitico, profondo, critico. Di usare il proprio talento nella letteratura, pittura, scultura o nel cinema per dire le cose come stanno. È l’unica arma che un artista ha a disposizione per spingere gli altri a pensare, a ragionare».

Il cauto ottimismo di Gitai cozza contro la “rivoluzione” nazionalista religiosa in atto nel Paese, ad ogni livello, dalla politica alla società, dai servizi di sicurezza ai mezzi d’informazione, senza dimenticare l’Esercito. Una rivoluzione che ha i suoi alfieri nel ministro e leader del partito “Casa Ebraica” Naftali Bennett, nella sua compagna di partito la ministra della giustizia Ayelet Shaked, nella vice ministra degli esteri Tzipi Hotovely, nel ministro dell’agricoltura e fautore della costruzione del terzo Tempio sulla Spianata delle moschee di Gerusalemme Uri Ariel, e anche nel premier Netanyahu che pure tiene a presentarsi come espressione della destra laica.

Importante è inoltre la penetrazione dei rabbini nazionalisti all’interno delle corti rabbiniche controllate per decenni dai religiosi ultraortodossi.

Così come l’ingresso degli ultranazionalisti ai vertici dei servizi di sicurezza. Il nuovo capo della polizia, Roni Alsheich, è solo l’ultimo nome nell’elenco di posizioni di primo piano nel settore della sicurezza affidate ad ufficiali cresciuti nel movimento sionista religioso. Un processo cominciato qualche anno fa con la nomina a capo del Consiglio della sicurezza nazionale Yaakov Amidror e continuata con il suo successore Yossi Cohen al quale potrebbe essere affidata la guida del Mossad. E continua con la nomina di Eyal Yinon, attuale consulente legale della Knesset scelto per la carica di procuratore generale, e di Herzi Halevi a capo della direzione generale dell’intelligence militare. Persone che spesso risiedono nelle colonie ebraiche in Cisgiordania e che hanno a cuore l’espansione degli insediamenti e le aspettative dei coloni.

Il giornalista Yoaz Hendel, un ebreo osservante, sostiene che non è in atto una rivoluzione sionista religiosa. Come accade sempre in politica e nella società, spiega, «quando c’è un vuoto c’è sempre qualcuno o qualcosa che va a colmarlo».

Non sono i nazionalisti religiosi che occupano i posti che contano nelle gerarchie del Paese, aggiunge Hendel, piuttosto sono gli israeliani di sinistra o progressisti sempre meno visibili e presenti.

In poche parole la sinistra sta sparendo e cede il passo ai sionisti religiosi.

In qualche caso è avvenuto il contrario, con ex ebrei ortodossi o osservanti come l’ex presidente della Knesset Avraham Burg, il ricercatore sulle colonie Dror Ektes e Hagit Ofran di Peace now che hanno abbandonato il nazionalismo per passare a sinistra e nel campo pacifista.

Read the English version of the interview on il manifesto global